Giornata memorabile al 25° Togay (e siamo solo al secondo giorno) con l’esaltante (il pubblico applaudiva ogni tre secondi) consegna del primo premio alla carriera “Dorian Gray” da parte di Liliana Cavani a James Ivory, entrambi sinceramente emozionati e quasi increduli davanti ad una sala gremitissima (moltissimi non hanno potuto entrare) che li osannava e adorava. Non ci dobbiamo meravigliare se oggi il popolo gay va facilmente in delirio per personaggi e figure di riferimento (e nostre “icone”) che per tanti secoli ci sono mancate o, meglio, ci sono state negate o nascoste.
James Ivory è stato il protagonista della conferenza stampa di mezzogiorno, dove ci ha parlato dei suoi film, del suo lavoro con il compagno e collaboratore di una vita Ismail Merchant, della genesi del suo ultimo film (“un amico, ad una festa, mi aveva infilato nella tasca il libro di Cameron), presentato nella serata in anteprima internazionale (vergognosamente non ha ancora un distributore nazionale). A proposito di “Maurice”, ci ha orgogliosamente detto che per anni ha continuato a ricevere lettere di gratitudine da parte di persone che gli dicevano che il suo film gli aveva cambiato la vita. Oggi, ci ha detto, è felicissimo di ricevere un premio dalla comunità gay (“finora sono stato trascurato dai festival gay”) per la quale, soprattutto negli anni ’80, ha fatto moltissimo. Ma, aggiungiamo noi, anche negli anni a seguire, fino ai nostri giorni, basti pensare che tutti i suoi film contengono personaggi lgbt o sono tratti da romanzi di scrittori omosessuali, che la sua vita di coppia con Ismail non è mai stata un segreto (condividevano appartamenti in tre continenti, compreso New York City) e che ha sempre parlato in difesa dei nostri diritti.
Vedi conferenza stampa di James Ivory all’Hotel Majestic il 17/4/2010
“THE CITY OF YOUR FINAL DESTINATION”
Anche il suo ultimo film, “The City of Your Final Destination”, visto in serata, è tratto dal romanzo di uno scrittore gay, Peter Cameron, che non ha collaborato direttamente alla sceneggiatura del film (noi, maliziosamente, pensiamo perché Ivory si fida solo della sua trentennale sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala). Nel film abbiamo inoltre, tra i protagonisti principali (nel libro erano più in secondo piano), una splendida coppia gay, interpretata da Anthony Hopkins e dal giapponese Hiroyuki Sanada (visto recentemente in Lost), conviventi da 25 anni e ancora innamorati come il primo giorno (sono senz’altro la coppia più positiva del film). Struggente la scena in cui l’anziano dimostra di essere disposto anche a perdere il più giovane compagno pur di vederlo felice e realizzato nella sua vita futura. Ivory comunque non calca mai la mano e sa mantenersi distaccato ed obiettivo anche nei momenti più coinvolgenti del film. Il film appartiene alla categoria dei film (e dei libri) post-gay, dove cioè i personaggi omosessuali sono perfettamente inseriti nella società e non devono più fare i conti con coming out, auto-accettazione, omofobia, ecc., i loro problemi sono come quelli di tutti gli altri: ricerca del partner giusto, fedeltà, tradimenti, compatibilità, ecc. Il fascino del film, oltre che in un cast stellare, basti citare oltre a Hopkins, una superlativa Charlotte Gainsburg (ma l’avete mai vista in qualche tono minore?), e una dilaniata Laura Linney (qui volutamente ringiovanita rispetto al romanzo), risiede sia nella storia, intrigante e ricca di misteri, che nell’ambientazione, come al solito accuratissima (una mossa campagna uruguayana ricca di sabbie mobile, mandrie, serpenti, interni accuratissimi fin nei minimi particolari, ecc.) che in dialoghi sferzanti, ricchi di un sottile humor e spesso pungenti, di cui è vittima l’igenuo e incerto protagonista Omar che deve inconsciamente liberarsi di una fidanzata dominante che forse alla fine del film potrebbe scoprirsi lesbica (nostra gratuita illazione nel tentativo di restituirle un po’ di umanità!). A noi, e probabilmente anche al pubblico che lo ha premiato con un lunghissimo applauso finale, il film è piaciuto sia per le qualità formali, capaci di evitare i pericoli insiti in una trasposizione letteraria ricca di dialoghi, che per un perfetto equilibrio di contenuti tematici, tra i quali la longeva coppia gay, il moderno e tribolato triangolo eterosessuale, lo scontro tra arte letteraria e suoi autori, tra nuovo e vecchio, tra presente e passato. Insomma un film ricchissimo e godibilissimo, che sa abilmente evitare le artificiose derive del facile melodramma.
Unico lungometraggio in concorso della giornata, che ha felicemente retto (e per alcuni anche superato) il confronto con il film di Ivory proiettato subito prima. Peccato che sia mancato il regista Scud (causa nube tossica sull’Europa che ha fatto chiudere gli aeroporti) presente in questo festival anche con “Permanent Residence”. Diciamo subito che, comunque, i due film, quello di Ivory e questo, sono agli antipodi, nel senso che quanto il prima cerca di evitare il melodramma, tanto questo cerca in tutti i modi di costruirlo; quanto il primo si esprime attraverso i dialoghi e le situazioni tanto il secondo si esprime attraverso i corpi e i sentimenti; quanto il primo è delicatamente casto e riservato (la scena più spinta è l’anziano gay sdraiato sul letto completamente vestito con al fianco il giovane tutto nudo visto di fianco) tanto il secondo è poeticamente osceno coi bellissimi corpi dei due giovani quasi sempre nudi e abbracciati. La tematica del film di Scud è oltremodo semplice, trattandosi alla fine di una grande, ma originale, storia d’amore tra due giovani di ceti differenti, ma oltremodo difficile perché tutta centrata sulla sessualità che giustamente dovrebbe esprimerla. Le scenografie sono altamente ricercate e stilizzate, spesso poetiche e rivelatrici degli stati d’animo dei due protagonisti (moderne strutture di vetro e acciaio che sottolineano l’incomunicabilità, oppure spazi di cielo e azzurro che fanno da sfondo alla loro unione spirituale). Il dramma è sempre dietro alla porta e pronto ad esplodere, mentre il sentimento d’amore che unisce i due giovani cerca disperatamente di realizzarsi anche contro le differenze, le impotenze, le solitudini, i lutti, la droga, il passato e il futuro, e le identità di entrambi. Il massimo pregio del film è comunque la capacità e l’impegno del regista nel far parlare i corpi e le nudità che non sono mai gratuite o volgari, ma un tramite per comunicarci il valore della bellezza generatrice d’amore anche nelle situazioni apparentemente più impossibili. Se volgiamo fare un azzardato paragone potremmo definirlo un “Happy Together” denudato.
Tra i documentari inconcorso visti oggi segnaliamo “Fish Out of Water” di Ky Dickens, una dettagliata e istruttiva analisi dei 7 paragrafi della Bibbia (quattro del vecchio testamento e tre del nuovo) che vorrebbero, almeno nelle intenzioni dei traduttori contemporanei, condannare l’omosessualità, ed usano addirittura spesso il termine omosessuale, senz’altro sconosciuto agli originali redattori dei testi biblici (San Paolo compreso). Ogni capitolo viene analizzato, inserito nel periodo storico in cui è stato scritto e contestato nell’interpretazione omofobica corrente, risultando avere tutt’altri significati e messaggio morale. Dovrebbe essere mostrato nell’ora di religione in tutte le scuole.
Una sala gremita per questo struggente dramma fami(g)liare, che arriva al cuore di tutti e sfocia in un pianto liberatorio per molti.
Bobby è un ragazzo modello, cresciuto secondo i rigidi dettami della Chiesa Presbiteriana che trova il coraggio di affrontare la propria omosessualità anche dopo aver assistito alla lapidazione verbale della comunità GLBT da parte della sua famiglia. Per sua madre Mary (una magistrale Sigourney Weaver) non è decisamente facile da accettare, e lo convince infine a farsi seguire da una psicologa perché possa “guarire”. Ossessionata dall’eventualità per cui la famiglia possa sfasciarsi in una seconda vita ultraterrena, a causa del peccato di uno dei membri, Mary vigila soffocantemente sul proprio figlio, ne testa la costanza e la volontà, lo interroga sulle sue abitudini, lo circonda di post-it con versetti biblici e prega instancabilmente per lui.
Convinto di essersi meritato l’odio della sua famiglia, Bobby decide prima di andare in vacanza ed infine di trasferirsi a Portland, da sua cugina Jeanette, la quale gli presenta David. I due ragazzi si innamorano, ma Bobby è dilaniato dal senso di colpa, sia nei confronti della sua famiglia che nei confronti di Dio. Il film, che fino a questo momento è stato un flashback, si apre così, con il ragazzo che cammina incerto su un ponte, davanti a lui il parapetto e alle spalle un tentativo di suicidio fallito.
Dal canto suo, il personaggio interpretato in maniera sontuosa da Sigourney Weaver, Mary, è un secondo protagonista. Tratto da una storia vera, incarna un esempio del percorso di accettazione che intraprende ogni genitore con un figlio/a gay. Ricordiamo che siamo nell’America dei primi anni Ottanta, anche se in certi posti la mentalità purtroppo non è cambiata molto.
Con il figlio distante, Mary si rende conto di averlo perso per sempre e quindi sprofonda tra rimorsi e senso di colpa, giungendo ad interrogarsi sulla propria fede fino a quel momento cieca. Scopre così che possono esserci diverse interpretazioni delle Sacre Scritture e si apre alla possibilità di incontrare la comunità gay e di partecipare agli incontri del P-FLAG (associazione americana equivalente all’AGEDO).
Un film che fa riflettere, soprattutto se si pensa che è una storia vera, e che molti genitori dovrebbero tenere sul comodino, accanto alla foto di famiglia. (Gaia Borghesi)
“BANDAGED” di Maria Beatty
La regista lo ha definito un film “lesbico gothic chirurgico”, dal momento che c’è molto eros, ma sempre associato al dolore fisico.
Lucille è una giovane e bella ragazza che vive con suo padre, uno stimato dottore, e sua nonna. Quando manifesta al padre la propria volontà di studiare arte e letteratura all’università, questi reagisce perentoriamente e la mortifica al punto che quella notte stessa decide di tentare il suicidio. Ciò che ne consegue invece è un’ustione di terzo grado, aggravata da paralisi e mutismo.
Per farsi aiutare nel periodo di convalescenza di Lucille, il dottor Baert chiede la collaborazione di una lontana parente di origini italiane, perché le faccia da infermiera 24 ore su 24. Fra questa e Lucille si instaura subito un rapporto di affettuosa curiosità, finché la giovane, recuperata la propria condizione, si fa avanti in modo molto deciso. Il rapporto si evolve sul filo di un sadomasochismo vagamente trash, ma la nonna e il dottore vigilano e bisognerà farci i conti.
Pubblico che rimane alquanto deluso dal film, a tratti anche fastidioso, e forse questa è la risposta alla domanda di partenza: il pubblico lesbico italiano è pronto per film pornografici nel vero senso del termine? Ma forse il chiacchiericcio che ha preceduto il film ha alzato le aspettative e Bandaged è rimasto letteralmente con le mani legate. (Gaia Borghesi)
“JE TE MANGERAIS” di Sophie Laloy
Marie ed Emma, amiche di infanzia, si ritrovano dopo alcuni anni a Lione, dove abitano insieme. La prima è un’aspirante pianista dagli atteggiamenti piuttosto ambigui, la seconda una studentessa di medicina apparentemente molto rigida e intransigente. Col passare del tempo però fra le due nasce un rapporto di amore-odio, causato dalla difficoltà di accettarsi che riscontriamo in Marie e dall’ossessività che caratterizza Emma. Le ragazze hanno un background molto diverso: Marie è circondata dall’affetto della sua numerosa famiglia, mentre Emma si ritrova sola dopo la morte del padre e la scomparsa della madre. Man mano che il film evolve, Marie comincia a frequentare Sami, un compagno del conservatorio, e la gelosia di Emma sfocia in psicosi. Si rincorrono e si prendono in una lotta per il potere dell’una sull’altra, che lascia poco spazio alla dolcezza, per far prevalere invece la violenza e l’inganno.
Je Te Mangerais è decisamente un climax ascendente, come le melodie classiche che ne compongono la colonna sonora. E’ angosciante e morboso, di difficile visione. Ma le parole dell’avvenente regista ci vengono in soccorso: il film, in parte auto-biografico, è volutamente così difficile da sostenere perché il pubblico capisse veramente come si sente il personaggio di Marie. Dunque non solo Sophie Laloy è riuscita nel suo scopo, ma lo ha fatto così bene che noi non ce n’eravamo neanche accorti. (Gaia Borghesi)
EUROFESTIVAL di Daniel N. Casagrande
Un medley che ripercorre la storia dell’Eurovision Song Contest, che ha lanciato talenti da ognidove. Nel corso degli anni, il palco è stato solcato da Olivia Newton Jones, dagli Abba, da Lara Fabian, ha visto il debutto di River Dance e la vittoria per un solo punto di Celine Dion con la canzone “Ne Partez Pas Sans Moi”.L’Italia è stata rappresentata da Mia Martini, dai Ricchi e Poveri e da Franco Battiato e Alice fra gli altri. Una curiosità sull’edizione del 1974: quell’anno la Rai trasmise il concorso canoro in differita di 36 giorni perché vi partecipava Gigliola Cinquetti con la canzone “Sì”, nella speranza di influenzare l’opinione pubblica, chiamata alle urne proprio in quello stesso giorno, perché si esprimesse in merito al divorzio.
Dal 1998 invece l’Italia non partecipa più all’Eurovision Song Contest e la Rai non lo trasmette, ma al TG1 va in onda la vittoria di Dana Iternational, cantante transessuale rappresentante Israele, che rappresenta un momento importante nella storia di qel Paese.
Nel 2002 crolla l’ultimo tabù con l’esibizione del gruppo sloveno Sestre, formato da tre drag queen. Tale evento spianò la strada a molti altri personaggi della comunità GLBT che si esibirono in seguito, tra cui DQ, Les Fatals Picards, Marija Seritovic e Verka Serduchka.
Chiudono questa rassegna le t.A.T.u., edizione 2009, che cantano “Not Gonna Get Us” con dietro un’orchestra travestita da Armata Rossa e un improbabile tank sovietico rosa shocking con i fiorellini.
Un momento simpatico e culturale di questo festival, per prendere piacevolmente fiato tra un film e l’altro. (Gaia Borghesi)
================
CORTOMETRAGGI LESBO (a cura di Gaia Borghesi)
EMBRACING BUTTERFLIES di Karen Davidsen (fuori concorso)
Un po’ di respiro fra due angosciosi lungometraggi.
Due anziane signore si incontrano in un parco e, con la scusa di dar da mangiare alle anatre, cominciano a parlare. Quando si presentano, si rendono conto di conoscersi già: erano compagne delle elementari e fin da subito si erano piaciute. Una delle due però si era tirata indietro: troppo spaventata all’idea di essere abbandonata, lasciò simbolicamente cadere una farfallina che l’altra le aveva donato.
Dopo tanti anni ritorna col pensiero a quei momenti e finalmente accoglie nella propria vita quella farfalla, e quindi la sua omosessualità, che ritrova sul double-decker che la riporta a casa.
LA CAPRETTA DI CHAGALL di Silvia Novelli (in concorso)
Un’ovazione da stadio per questo cortometraggio e per la sua regista torinese da parte del foltissimo pubblico lesbico. Molta simpatia e tanta ironia velano i dialoghi delle protagoniste, che ruotano attorno all’impossibile storia d’amore fra una riccioluta sognatrice e la Shane di turno alla quale, si dice, manca il gene della sensibilità. Emma, aiutata dall’amica Silvia, fa di tutto per allontanarsi da “Lei” e riacquistare un po’ di autostima, recuperare la prospettiva di sé, ma sembra essere una storia che vale, dato che come “Lei” la chiama, Emma corre, magari anche dopo una solitudine forzata e colorata da ironici post-it con appunti come “NON CERCARLA” e “TANTO NON SAREBBE COMUNQUE QUI DENTRO”, (attaccati sul frigorifero).
Come i più acuti lettori avranno sicuramente captato, la musica è il filo conduttore di questo corto. Emma ci racconta della sua datata passione per il tip-tap e poco dopo si lancia in una rivisitazione di Dirty Dancing. I cantanti direttamente citati sono Laura Pausini, Tiziano Ferro, Alexia e Giusy Ferreri, i cui testi fanno da sottotitoli. La protagonista ce la mette tutta a “volare do do do dov’è il pianeta del cuore”, ma i suoi tentativi naufragano quando si ritrova a montare un mobiletto a seguito di una tanto attesa telefonata. Eppure anche qui riesce a ironizzare sul modo di scrivere sms di “Lei”, senza vocali e con molte K, ed il mobiletto stile IKEA che sta montando.
Ad un certo punto però la metamorfosi avviene: Emma si stufa di essere messa in cornice, non si sente più lei e casomai è bellissimo così. Neanche una confessione da parte di “Lei” può farla tornare sui suoi passi, apparentemente. Ma “un lieto fine era previsto e assai gradito”. (Voto 7)
REVELATIONS di Tom Gustafson (in concorso)
Proprio quando il pubblico credeva che la serie di corti fosse terminata, viene fermato da un’ironicamente simpatica signora che vuole mandare il suo videomessaggio. Fa parte del tristemente noto gruppo “God Hates Fags” e si riprende da dentro un armadio, pur sapendo che i gay non amano essere “in the closet”, per fare qualche piccola confessione. e per spiegare il perché di tutto quell’odio.
Un corto divertente e irriverente, che si conclude sulle note dell’inno americano rivisitato in chiave tollerante per la comunità GLBT. Al regista il merito di essere riuscito a far sorridere su una così triste realtà, cercando di interpretare un apparentemente falso luogo comune secondo cui “Dio vi odia, non io”.
E poi dopotutto, un armadio con i relativi scheletri all’interno ce l’abbiamo tutti no? (Voto 8)
BLANCA TU HUMEDAD di Paula Herrera (in concorso)
26 interminabili minuti per gli spettatori che hanno riempito la sala 1 del Cinecafé Ambrosio. La protagonista di questo cortometraggio è una giovane nuotatrice, che rimane affascinata dall’anziana custode della piscina. Si incontrano fugacemente, si scambiano soltanto sguardi, né gesti né parole. Ma un brivido serpeggia tra le file al pensiero che le due si possano scambiare un bacio, vista la scarsa avvenenza della donna.
Avviene infine l’attesa consegna di un abito da sera, simbolo di un’iniziazione, e le due si recano ad un locale lesbico gestito dall’anziana signora e ballano insieme.
Cast che lascia molto, se non tutto, a desiderare, dialoghi quasi completamente assenti e un uso del colore con molte più ombre che luci. (Voto 4)
CORTOMETRAGGI GAY IN CONCORSO (a cura di R. Mariella)
Pulsiones di Josè Manuel Carrasco (Spagna,2009,12′), forse il migliore corto gay della giornata, racconta con grande delicatezza della nascita di una storia d’amore tra un prostituto ed un cliente incerto del proprio orientamento sessuale, che vuole testare le sue reazioni fisiche a tutti i vari tipi di contatto sessuale con un uomo.
Spokes (Australia, 2009,7′) del giovanissimo (e di bell’aspetto) regista australiano Peter Ireland, presente in sala, è una fiaba gay che racconta di un ragazzino in bicicletta che, dopo aver incontrato tutta una serie di strani personaggi (una formica parlante, una strega buona…), trova il suo principe azzurro. Anche le storie gay possono essere belle favole a lieto fine. Il film ha richiesto un grande lavoro per la realizzazione dell’animazione digitale e l’ottimo risultato tecnico ottenuto aggiunge valore a questo piccolo gioiello.
Mamma Veit havo hun syngur (Mother Knows Best – Islanda,2009,25′) di Barol Guomundsson. Il più divertente corto della giornata, tratta di un archetipo del mondo gay: la mamma possessiva. La mamma del film si intromette senza il minimo ritegno nella vita del figlio per rovinargli tutte le sue relazioni con le ragazze, un giorno però vede alla televisione che in alcune popolazioni del Sud America è considerata una fortuna avere un figlio gay, perché egli non se ne andrà mai di casa e si curerà dei genitori anziani. Quindi quando il figlio le confessa di essere gay lei non sta più nella gioia. Nell’esilarante scena finale del film, la terribile mamma mette sul giradischi la nota canzone italiana “Mamma son tanto felice…”. Ma questo corto stà qui a dimostrarci che la mamma possessiva non è un problema solo italiano.
—————–
Alle 23 all’Hotel Majestic si è svolta una originale ed utilissima serata in compagnia dei registi presenti al festival, organizzata da Christos Acrivulis e Alessandro Golinelli. Registi, interpreti e spettatori si sono seduti a caso nelle poltrone della Hall dell’albergo e a turno hanno detto la loro opinione riguardo all’argomento lanciato da Golinelli, e cioè dell’importanza della memoria, dato che molti film visti in questi giorni affrontano questo tema. Oggi dobbiamo cominciare a parlare di movimento omosessuale anche guardando alla nostra storia passata. Sono intervenuti molti registi tra i quali Patricia Rozema, Olivier Ducastel, Monti Parungao, Raphael Alvarez, Michael Stock, Silvia Novelli, Peter Irland e altri. A breve pubblicheremo il resoconto dettagliato di questo incontro.
Vedi trascrizione completa dell’incontro
Alcune immagini della giornata.
Liliana Cavani
|
James Ivory, Giovanni Minerba, Liliana Cavani
|
La Cavani consegna il premio alla carriera "Dorian Gray" al regista Ivory
|
La tavola rotonda dei registi presenti al Festival
|
Patricia Rozema
|
Michael Stock
|
Monti Parungao
|