Carissimi della Redazione di Cinemagay,
pur rispettando la “parziale” opinione della Redazione, trovo che la vostra lettura dell’articolo apparso su La Stampa a firma di M. T. Martinengo non sia stata attenta e precisa, e pertanto ritengo necessario puntualizzare almeno un passaggio; quello che dice…:
“È venuto a mancare il rapporto di fiducia – e da parecchio tempo, atteggiamenti spiacevoli. Posso solo dire che in una struttura come quella del festival è necessario mantenere un ordine gestionale. È indispensabile, anche nei confronti del Museo del Cinema.”
In questa mia affermazione, CHI VUOLE, trova tutte le motivazioni che mi hanno portato a prendere questa decisione, dopo molte riflessioni e parecchia sofferenza.
Trovo poi “offensiva” l’affermazione, chiaramente dovuta alla disinformazione (ma approfondire e documentarsi no?), che io abbia intenzione (magari insieme al nuovo staff…) “voler trasformare il Festival in una fiera – così si chiamano le iniziative commerciali che devono andare incontro ai gusti del pubblico…”
A tal proposito, per fugare ogni perplessità preciso che: sono di indubbio prestigio le persone, già contattate, che andranno ad occuparsi di selezione dei film, oltre a curare alcune sezioni speciali, retrospettive, omaggi, ecc.
Non sono mai state in discussione la qualità delle prestazioni fornite da Santoro, Oberto e Merighi, il rigore filologico e il generoso contributo volto a far conoscere produzioni che diversamente sarebbero rimaste confinate in ambiti e territori molto parziali e regionali, ma è stata anche raccolta e lamentata l’eccessiva concentrazione di attenzione, e risorse, su alcuni filoni e prodotti troppo lontani dalle aspettative e dalle esigenze proprio di quella parte del pubblico, che si è in parte disamorato.
La periodica necessità di procedere, comunque, a riorganizzare ruoli, mansioni e profili funzionali vale anche per i piccoli sistemi di lavoro, come il nostro, allo scopo di favorire processi e sistemi più snelli ed efficienti, e di poter meglio assegnare e ridistribuire le risorse destinate alle spese per il personale: e infatti è stato elaborato un piano generale di riorganizzazione del Festival, condiviso con il Museo del Cinema.
La modesta disponibilità di risorse a bilancio, accompagnata dall’instabilità delle indicazioni della politica generano sfiducia, e un senso di perenne precarietà della manifestazione, e richiedono di essere affrontate da una struttura serena, compatta e fortemente sintonica.
Nel caso specifico, occorre quindi premettere e ricordare che nel 2010 il Festival celebrerà i suoi primi 25 anni, e in prospettiva di questo straordinario evento è necessario prevedere, organizzare e costruire, o ricostruire, uno staff ampiamente motivato, affiatato e coeso, dove qualunque motivo o elemento di criticità, pur inevitabile, possa essere serenamente individuato, circoscritto e reso innocuo.
Questa esigenza primaria non sussisteva, e la perdurante latenza di incomprensioni, sovrapposizioni, micro conflitti interni, avrebbe seriamente messo a repentaglio un buon clima di lavoro, di passione comune e obiettivi chiari, condivisi e partecipati.
Questo clima interno così complesso, e faticoso, non è questione del tutto nuova, ma si trascina già da tempo e in questo tempo ha via via eroso il livello di fiducia e rispetto che deve necessariamente esistere in uno staff molto piccolo, molto giovane e molto dinamico. Un livello di fiducia e rispetto gerarchico-verticale, tra la Direzione e le altre figure, ma anche orizzontale fra tutti coloro occupati nei vari settori in cui è articolata l’attività interna del Festival. Lavorare al Torino GLBT Film Festival deve essere un piacere, una gioia, deve essere motivo di orgoglio, e l’assenza di questi requisiti è dannosa, anche se esternamente si è sempre cercato di non compromettere e danneggiare la buona riuscita della manifestazione. E qui ci sta la vostra affermazione/dubbio… “Altra cosa sarebbero invece cambiamenti apportati per creare maggiore coesione e dialogo tra gli elementi dello staff. In questo caso nessuno potrebbe obiettare alcunchè…”
Voglio infine spendere, e indirizzare, un appello alle forze migliori (che hanno accompagnato negli anni il Festival), culturali, sociali, economiche, alle organizzazioni GLBT, al nostro vario e affezionato pubblico, ai volontari, ai professionisti dell’informazione e della comunicazione: pensiamo che serva indirizzare ogni energia e ogni risorsa verso l’obiettivo di celebrare il 25nnale, e a questo scopo servono consigli, servono battaglie per allontanare definitivamente le nubi che non cessano mai di oscurare i nostri orizzonti, rendendoli cupi e ristretti, serve solidarietà.
Lavoriamo tutti insieme per la nostra visibilità, e non per celebrare future disgrazie.
Cari saluti
Giovanni Minerba
LA RISPOSTA DEI PROGRAMMATORI ESCLUSI: Cosimo Santoro, Davide Oberto, Ricke Merighi
Gentili redattori di cinemagay.it, care lettrici e cari lettori,
il lungo testo che segue era stato concepito come risposta alle dichiarazioni che il direttore del Torino GLBT Film Festival aveva rilasciato a La Stampa per “argomentare” il nostro allontanamento. Nel frattempo Minerba ha risposto alle critiche mossegli da cinemagay.it con una dichiarazione allucinante nei toni e nella forma usata, più simile a un comunicato del Komintern in salsa berlusconiana che a un intelligente e ragionata risposta. In entrambi i casi Minerba rivela di avere un immaginario arrogante, che disprezza le diversità e le discussioni. È quindi con un certo orgoglio che ci piace essere definiti come: “qualunque motivo o elemento di criticità, pur inevitabile, [che] possa essere serenamente individuato, circoscritto e reso innocuo”.
Buona lettura:
Le dichiarazioni di Minerba rilasciate a La Stampa ci lasciano ancora più sconcertati del brutto gesto di cui siamo stati vittime.
Dichiarare che il Festival non segue più le esigenze del pubblico e che c’è bisogno di far diventare questo evento una “festa”, significa innanzitutto non riconoscere il lavoro svolto da persone competenti, appassionate e attente all’evoluzione del gusto queer. Persone che per anni (8 Cosimo Santoro, 7 Davide Oberto, 6 Ricke Merighi) sono state capaci di organizzare una programmazione equilibrata, su tre sale, dando lo spazio necessario a ogni tipo di proposta e tenendo ben presente che il pubblico non è un’entità astratta, ma è composto da tante diverse anime. Attraverso le scelte dei film e cercando di portare diversi ospiti (molti dei quali senza il nostro impegno difficilmente avrebbero fatto parte del Festival) abbiamo cercato di creare un evento complesso, giocoso e culturalmente pregnante, nel tentativo di farlo crescere soprattutto a livello sociale e politico, oltreché artistico e di avvicinarlo anche alle nuove generazioni. Ci sembra che queste scelte siano state vincenti, dato il costante incremento di spettatori, di interesse e di affetto generale per una manifestazione che viene ormai ritenuta dalla comunità internazionale come la più importante a tematica lgbt.
In secondo luogo, fare queste affermazioni, compresa quella secondo cui noi abbiamo rappresentato una perturbazione dell’ordine gestionale del Festival, rivela una contraddizione indicativa: il direttore ha sempre vidimato le nostre scelte artistiche, ha sempre controllato la programmazione e partecipato alla selezione dei film; quindi, laddove certe scelte non fossero state condivise, avremmo preferito un confronto sensato in fase di organizzazione e non delle dichiarazioni postume, che francamente non hanno nessun fondamento e che sembrano voler nascondere altre ragioni. Così come ci chiediamo dove fosse il direttore mentre “distruggevamo” l’ordine gestionale del Festival in questi anni. Nel corso delle 24 edizioni, validi e stimati collaboratori del direttore ci hanno preceduto (tra tutti ci piace ricordare Stefano Francia, Marina Ganzerli, Luca Andreotti) e sempre il Festival è cambiato grazie al loro intenso lavoro, solo il direttore non è cambiato mai.
Se poi si parla di “festa”, termine recentemente abusato in associazione al cinema e non proprio portatore di buona fortuna, ci teniamo a ricordare che il Festival è da sempre percepito come un momento di aggregazione e socializzazione sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori, per l’atmosfera rilassata che vi si respira, per le numerose vere e proprie feste che ha organizzato, per essere un luogo aperto che favorisce gli incontri e le discussioni. In questo senso, trattandosi soprattutto di un evento cinematografico, non capiamo di quale altro tipo di “festa” si stia parlando. Forse la programmazione deve diventare una “festa”? Se vogliamo andare ad una festa, sinceramente non pensiamo ad una sala cinematografica, a meno che – e scusate la battuta un po’ post-sibillina – non decidiamo di andare a vedere “A Festa da Menina Morta”: quella si che era una bella festa per gli occhi.
Abbiamo l’impressione che lo scivolamento del Festival in “festa” espliciti un’opinione paternalista e poco lusinghiera dei pubblici che affollano il Festival. Quando Ottavio Mai e Giovanni Minerba hanno fondato il Festival, hanno proposto con coraggio e determinazione un cinema in Italia poco conosciuto e decisamente poco popolare (Fassbinder, Ken Russel, Derek Jarman e poi Gus Van Sant, per citare alcuni grandi registi). Con gli stessi film che Mai e Minerba insieme realizzarono hanno tentato di rappresentare e dare vita a un immaginario che al cinema allora non trovava spazio. Non son più quegli anni, il pubblico è cambiato, ma secondo noi il Festival deve continuare a proporre immaginari e immagini anche e non sempre popolari, se ritiene di essere ancora un momento di diffusione e discussione della cultura. Non ci stiamo a essere considerati dei fautori di scelte élitarie (tra l’altro contraddette dalla continua crescita di pubblico degli ultimi anni) e siamo convinti che il concetto di “cinema popolare” nasconda poca considerazione per gli spettatori del Festival che sono molto più intelligenti e disposti a lasciarsi sorprendere dal cinema di quanto qualcuno pensi. Ricordiamoci che a Torino c’è una lunga tradizione di frequentazione dei festival e dei cineclub!
Insomma se Minerba vuol trasformare il suo staff in animatori di un villaggio turistico chiamato Festa del Cinema Gay, faccia, ma sappia che non fa altro che rinunciare al ruolo che il cinema ha avuto in 24 edizioni e siamo ben contenti di non essere suoi complici in questa operazione. Ci sembra che l’idea di “festa” rappresenti piuttosto un immaginario da sagra di paese locale e senza aperture sul mondo. Sospetto confermato dal silenzio del direttore e del sito del Festival sul programma di film a tematica italiani presentati in questi giorni alla quarta edizione (la seconda ufficiale) del Festival Gay di Pechino in collaborazione con noi.
La scelta di Minerba appare legittima, almeno da un punto di vista formale. Ma rinunciare ad una collaborazione che durava da anni, che poteva essere certamente caratterizzata da divergenze di opinioni, ma in cui tutto doveva servire a costruire il miglior Festival possibile, lascia lo sconcerto. Lo sconcerto nostro e di tutti coloro che in forma privata e pubblica ci danno sostengo e ci fanno sentire fieri del lavoro che abbiamo svolto, caratterizzato da professionalità e passione. Non abbiamo nulla da rimproverarci, non è stata una scelta fatta da noi. Il direttore può anche non volere più i suoi collaboratori per ragioni personali, la tipologia di contratti di collaborazione ormai tipica dei lavori dell’ambito culturale glielo consente, ma che almeno abbia il coraggio delle sue idee e non si nasconda dietro a giustificazioni inconsistenti come queste. Trattandosi di un evento pubblico, ampiamente sostenuto dal denaro dei contribuenti, il direttore non dovrebbe comportarsi come il padrone di una piccola impresa famigliare, e dovrebbe invece rendere conto delle sue scelte non tanto a noi, suoi ex-collaboratori a progetto, ma ai suoi diretti interlocutori, cioè i cittadini e le cittadine che come pubblico affollano le sale del Festival. Che dunque almeno a loro vengano date delle spiegazioni plausibili.
Un’ultima precisazione. Ci terremmo che si smettesse di denigrare, in modo anche vagamente razzista, il cinema filippino. La cinematografia filippina si sta rivelando una delle più interessanti a livello mondiale. Noi ci pregiamo di aver dato spazio a molti autori che sono diventanti punti fermi del cinema internazionale. Al Festival, per esempio, nel 2006 arrivò Brillante Mendoza con “Masahista” e con quel film vinse un premio del pubblico (incredibile! un film filippino popolare!); lo stesso Brillante Mendoza che ha vinto la Palma per la Miglior Regia quest’anno al Festival di Cannes. Così come Auraeus Solito, vincitore del Teddy e del Festival nel 2006, con un film che il pubblico ha amato moltissimo. Dare ascolto a chi fa dell’ironia o denigra film provenienti da paesi con culture diverse, può certo essere una scelta legittima, certo non è condivisibile da noi e dalle tante altre persone che hanno frequentato un Festival a favore delle minoranze, dove l’ascolto o il sostegno a opinioni come queste non può che essere considerato paradossale.
Cosimo Santoro, Davide Oberto, Ricke Merighi
11/7/2009
La posizione del Maurice di Torino sulla questione TGLBTFF
Come sa chi ci conosce il Circolo Maurice ha sempre dato estrema importanza, sin dalle sue prima attività, alle iniziative culturali in campo glbt, convint* come siamo che sia questo un terreno prioritario d’iniziativa per combattere pregiudizi e discriminazioni. Per questo abbiamo visto con grande interesse crescere, nel corso degli anni, il Progetto del Festival del Cinema GLBT, che ha saputo diventare un appuntamento di rilevanza sia nazionale che internazionale, guadagnando consensi di critica e di pubblico e diventando un appuntamento molto atteso per la comunità torinese, dove ha trovato anche una forte disponibilità in termini di collaborazioni e di volontari che l’hanno sostenuto.
Per tutte queste ragioni riteniamo che ciò che riguarda il festival abbia interesse per tutta la comunità glbt, oltre ad essere d’interesse pubblico generale, se non altro per il sostegno culturale ed economico che il festival ha saputo conquistarsi. La vicenda che in queste settimane ha coinvolto tre collaboratori di primo livello quali Cosimo Santoro, Davide Oberti e Ricke Merighi, quindi ci sembra esulare da un piano strettamente privato di relazioni e riteniamo vada sviluppato un dibattito pubblico, al quale vogliamo portare il nostro contributo, a partire da questo intervento.
Ben sapendo infatti di non essere in possesso di molti elementi di valutazione che riguardano la vicenda riteniamo di poter esprimere alcune valutazioni.
In primis la stima culturale verso Ricke, Davide e Cosimo, che abbiamo conosciuto anche in altre occasioni, ma verso i quali ci appare evidente che abbiano dato in questi anni un forte contributo di qualità nella programmazione del festival, che ha avuto forti riconoscimenti. Ci sembra anche contraddittorio affermare che possa essere loro una responsabilità di scelte “elitarie” che non possiamo pensare non siano state condivise e che comunque se fossero state davvero tali non spiegherebbero il crescente consenso di pubblico che il festival ha sempre comunicato e che noi tutt* abbiamo potuto constatare.
Va riaffermato, crediamo, il valore pubblico del festival come iniziativa culturale e quindi non pensiamo che le scelte d’indirizzo abbiano una caratterizzazione privatistica, anche se ovviamente riconosciamo a Giovanni Minerba la capacità di aver dato corpo fin dall’inizio, insieme ad Ottavio Mai, al progetto culturale e di aver saputo costruire poi nel corso degli anni un consenso che ha portato anche alla forma del riconoscimento di un sostegno economico significativo, anche se sempre insufficiente per una programmazione in costante capacità di crescita.
Infine crediamo che questa vicenda non vada vista in un’ottica esclusivamente “interna” al mondo glbt, anche per lo spazio di riconoscimento che il festival ha saputo ottenere, ma ponga con urgenza un tema generale della precarietà dei rapporti di lavoro, che talora proprio in campo culturale raggiunge livelli insostenibili, precludendo ad operatori e ricercatori indipendenti e capaci la possibilità di offrire gli stimoli che sarebbero in grado di dare. Si tratta da questo punto di vista della necessità di dare forme di tutela a chi opera in campo culturale, perché per esempio non ci sembra accettabile che dopo anni di collaborazione si possa essere mess* alla porta senza possibilità di ottenere spiegazioni, ma anche di assicurare un piano di sostenibilità per energie intellettuali che forniscono risultati e strumenti di interesse pubblico.
Insomma a noi sembra che sia il caso di aprire a partire da questo caso un franco dibattito, per rafforzare la dimensione di progettualità di tipo comunitario che riconosciamo nel festival e fugare una dimensione personalistica che non sarebbe accettabile.
IL Consiglio Direttivo del Circolo Maurice
21/6/2009
RIBALTONE AL FESTIVAL GAY «DA SODOMA A HOLLYWOOD»
La direzione del Festival gay torinese decide improvvisamente di non proseguire la collaborazione con Davide Oberto, Ricke Merighi e Cosimo Santoro, da anni efficientissimi programmatori del Festival, portato al rango di uno dei migliori festival cinematografici mondiali.
Una brutta notizia, per noi assolutamente ingiustificabile, almeno nei termini in cui viene presentata. Abbiamo seguito attentamente le ultime edizioni del Festival, trovandole ogni anno più interessanti e capaci di darci una visione globale ed internazionale dei notevoli progressi, sia qualitativi che tematici, del cinema lgbt. Il pubblico ha sempre risposto con entusiasmo, affollando tutte le sale di proiezione.
Ora il Direttore, peraltro nostro carissimo amico, ci viene a dire che il Festival è troppo serioso, che non tiene conto dei gusti del pubblico, che il festival deve tornare ad essere più una festa che un festival, ecc.
Nessuna di queste motivazioni ci convince, anzi ci sembrano tutti punti di merito (anziché demerito), punti che hanno portato il Festival torinese ad essere tra i Festival a tematica più apprezzati nel mondo. Volerlo trasformare in una fiera – così si chiamano le iniziative commerciali che devono andare incontro ai gusti del pubblico – vorrebbe dire annullare uno dei suoi principali punti di forza, quello di essere una vetrina dei reali cambiamenti qualitativi che stanno interessando, in tutto il mondo, il cinema lgbt, avvicinandolo sempre più ai livelli del miglior cinema internazionale presentato in festival come Venezia o Cannes. Non per niente vediamo ogni anno aumentare il numero delle pellicole a tematica che entrano nelle sezioni ufficiali di questi grandi festival.
Sarebbe assurdo che mentre nel mondo aumentano le pellicole lgbt di qualità, noi si dovesse tornare indietro e fermarci ai filmetti di intrattenimento o didattici, confinandoci ancora in quel sottogenere da minoranze emarginate che certo non aiutano la nostra emancipazione.
Per entrare brevemente nel merito, rileviamo che nell’articolo della Stampa si legge che avrebbe “scandalizzato” la programmazione del sabato sera che presentava alle 22.15 un lunghissimo film filippino, il secondo noi pregevolissimo “Selda”, senza dire che alle ore 20.00 della stessa serata veniva presentato il film vincitore del Festival (“Leonera”). Nessuna programmazione avrebbe potuto fare meglio!
Da un Festival ognuno si aspetta il meglio della produzione cinematografica internazionale, con le opere più significative sia per la forma che per i contenuti, limitandosi magari nella selezione di opere sperimentali o di estrema avanguardia, ma solo qualora risultino eccessivamente astratte o di difficile comprensione, cosa fino ad oggi assolutamente rispettata dai programmatori torinesi.
Altra cosa sarebbero invece cambiamenti apportati per creare maggiore coesione e dialogo tra gli elementi dello staff. In questo caso nessuno potrebbe obiettare alcunchè. Anche se ci appare assai difficile pensare che persone come Santoro, Oberto e Merighi, sempre disponibilissime ed apertissime, possano essere state di ostacolo ad una costruttiva comunicazione all’interno degli apparati del Festival.
Riportiamo di seguito l’articolo apparso su La Stampa di oggi.
da La Stampa del 21 giugno 2009
“Film noiosi” via lo staff
di Maria Teresa Martinengo
Nella prossima edizione del Festival da Sodoma a Hollywood, la rassegna di cinema lgbt che nel 2010 compirà un quarto di secolo, non ci sarà un altro sabato sera occupato da un film interminabile in lingua tagalog (la più importante tra le lingue filippine): un’opera senza dubbio alcuno da festival, una pellicola interessante, d’autore, ma per il pubblico anche mortalmente soporifera. Inadatta, insomma, alle attese. Per lo meno a quelle del sabato sera.
Questa è una delle battute che circolano negli ultimi giorni e che tenta di spiegare perché i tre esperti che negli ultimi quattro anni hanno curato la programmazione della rassegna gay non siano stati confermati. Il contratto annuale è scaduto e non sarà rinnovato.
A prendere la decisione di non proseguire la collaborazione con Davide Oberto, Ricke Merighi e Cosimo Santoro, dopo molte riflessioni e – per sua ammissione – parecchia sofferenza, è stato il direttore artistico Giovanni Minerba. Che a proposito dell’ironia sul film filippino e sulla scelta che sta mettendo scompiglio nel mondo intellettuale/artistico gay (complice il tamtam partito su Facebook) spiega: «Il festival ha la necessità, ovvia, di andare incontro a tutto il pubblico. Poi, certi spettatori avranno trovato quel film noioso e altri no, dal momento che anche la passata edizione ha registrato un incremento di consensi». Però. «Però negli ultimi anni – prosegue il direttore/fondatore – sempre più gente è venuta a lamentarsi perché stava venendo meno l’equilibrio tra le pellicole d’autore e quelle più “popolari”: la rassegna ha sempre avuto una dimensione di festa che deve essere mantenuta. Nelle prossime edizioni terremo maggiormente presenti le attese del pubblico».
Ma le scelte élitarie non sarebbero l’unica ragione del «divorzio», né la principale. «È venuto a mancare il rapporto di fiducia – ricorda Minerba – e da parecchio tempo, atteggiamenti spiacevoli. Posso solo dire che in una struttura come quella del festival è necessario mantenere un ordine gestionale. È indispensabile, anche nei confronti del Museo del Cinema (ndr. con il quale da quattro anni esiste una convenzione per quanto riguarda gli aspetti organizzativi)». L’edizione 2010? «Sto lavorando al nuovo team, persone di assoluta professionalità e competenza con cui si lavorerà bene».
Dal canto loro, Oberto, Santoro e Merighi hanno sollecitato attenzione rivolgendosi alle personalità della Torino della cultura che li hanno apprezzati negli anni. «Scelte troppo élitarie? Noi abbiamo costruito una programmazione – osserva Santoro – che andasse un po’ in tutte le direzioni, tenendo conto che il pubblico è cresciuto dal punto di vista del gusto, che è cittadino, ma anche italiano ed europeo». E aggiunge: «Nessuno di noi ha ricevuto da Minerba spiegazioni precise. Al Museo, per contro, ci hanno detto che il direttore artistico è legittimato a decidere chi debba occuparsi della programmazione».