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Il progetto di questa sedicesima edizione della rassegna “Garofano Verde – scenari di teatro omosessuale”, realizzata con il sostegno del Comune di Roma – Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, si fonda tutto, per la parte inedita del cartellone, su materiali testuali che rendono omaggio alla letteratura contemporanea.
Il gesto di ripensare, di riscrivere integralmente e di far riparlare in altro modo (senza adattamenti diretti, salvo Leavitt e Cotroneo) pagine di libri e formule di autori pervase da una sensibilità o da una tematica omosessuale, manifesta l’intenzione nostra di mettere in campo, di creare ex novo e autonomamente un’azione scenica che rimediti scritture meritevoli d’essere vissute da nuovi personaggi, da nuovi contesti e da nuovi linguaggi sotto i riflettori.
Condivise nel progetto e nel criterio con la Società per Attori, le procedure sono qui state, di lavoro in lavoro, sempre diverse. C’è stato qualcosa di profondo, di suggestivo e di inesorabile che ha funzionato da polo d’attrazione in certi personaggi di David Leavitt rivisitati trasversalmente da Luca De Bei.
C’è un senso di inadeguatezza, un presentimento della maturità intesa come arresto della trasformazione e della bulimia sessuale da cui discende la voglia, per i giovani di Dennis Cooper (re-immaginati da Ricci/Forte), di preferire il grado zero di un limbo.
C’è una declinazione del dolore sentimentale gay che fa dimenticare la fonte traumatica di un abbandono e pone nello stato permanente del desiderare ancora quel disamore, come insegna Ivan Cotroneo, col supporto della regia di Enrico Maria Lamanna.
Ci sono le molte strutture di romanzi o racconti di monitoraggio, contemplazione, ridefinizione e autonarrazione della coscienza o dell’oblio omosessuale che hanno indotto a micro-creazioni, a corti teatrali indipendenti ad opera d’un laboratorio di neo-autori, con affidamento del polittico a Giuseppe Marini.
C’è il personalissimo dar corpo e voce, dopo averne plasmato un raro romanzo, a una storia d’amore tesa a elaborare le ragioni, le follie e i burrascosi misteri di un distacco, col privilegio dei toni e del senso prestati dallo stesso autore, un autorevole attore, Sandro Lombardi.
E c’è, di ritorno sul palcoscenico del Belli, ospite tutto teatrale del “Garofano Verde”, lo scavo di Philip Ridley attorno alla morte di un giovane, con prelievi dal non detto, dal non convenzionale, dal non comodo, su regia di Carlo Emilio Lerici.
Nel momento in cui ancora si agitano discussioni, polemiche, contrasti pregiudiziali e remore etiche nei confronti della libertà dell’individuo, nel momento in cui alte sono le voci per perorare o avversare una legislazione equa che concerna i diritti discendenti da vincoli omosessuali, nel momento in cui il cinema crea un fronte di dialogo e di sdrammatizzazione in materia di rapporti tra esponenti dello stesso sesso, e nel momento in cui langue invece un certo fronte innovativo di drammaturgia che additi problemi e tensioni di una sfera intima e sociale del sentire nella sfera GLBT (gay-lesbo-bisessuale-transessuale), ci è parso opportuno eleggere a esempio le trame, le espressioni, le figure e i modi d’approccio della letteratura odierna omosessuale, e riversarne anche soltanto il puro senso in teatro.
È solo un gesto, il nostro – mentre in Europa gira lo spettacolo di danza “To be Straight with You” di Lloyd Newson per i Dv8 con 85 interviste sui mondi omofobici e gay – per creare sinergie e dialoghi tra arti, oltre che tra persone. E a proposito di persone salutiamo con affetto uno spettatore sempre presente, l’amico Nico Garrone.
Rodolfo di Giammarco
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2 – 6 giugno |
UN LUOGO DOVE NON SONO MAI STATO testo e regia di |
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liberamente tratto dai racconti di DAVID LEAVITT con Federica Bern, Riccardo Bocci, Giorgio Marchesi costumi Sandra Cardini • scene Francesco Ghisu colonna sonora e video-immagini Marco Schiavoni disegno luci Camilla Piccioni • assistente ai costumi Francesca Di Giuliano aiuto regia Valerio Vittorio Garaffa
L’idea di riunire quattro diversi racconti di David Leavitt in un unico spettacolo proviene in un certo senso da un’idea dell’autore stesso. Leavitt infatti sceglie i tre personaggi del racconto “Devota” (facente parte della raccolta “Ballo di Famiglia” del suo folgorante esordio a soli 23 anni), e li segue con attenzione e amore attraverso gli anni, dedicando loro tre altri diversi racconti. La protagonista, Celia, è una ragazza amica appassionata di due giovani amanti gay: Nathan e Andrew. I due ragazzi non si riconoscono più, si sono incattiviti, sono in eterna competizione ma, non potendo vivere lontani l’uno dall’altro, tornano sempre insieme. Celia è la confidente dei due. È una ragazza incapace di pensare alla propria felicità e che dedica perciò se stessa agli altri, a uomini che non potranno mai veramente amarla. Celia osserva la storia d’amore dei suoi amici, vive all’ombra delle loro vite, ma alla fine decide di lottare per trovare una sua vera identità. Come gran parte dei personaggi giovani di Leavitt anche loro vivono nel terribile contrasto tra la voglia di essere, di esprimere se stessi, e il senso di vuoto provocato da una ricerca priva di solide radici e incapace di centrare un reale obiettivo. Tutti anelano infatti a qualcosa che loro per primi non riconoscono. Eppure, nel loro sentirsi perdenti ancor prima della lotta, nella loro ansia di amare ed essere amati, trovano infine, e loro malgrado, un motivo di essere rappresentativi e necessari. I giovani italiani di oggi sono ugualmente smarriti, soli, schiavi della televisione e delle mode dei personaggi di questi racconti. La loro mancanza di valori è la stessa, come è la stessa la voglia di credere in qualcosa, chissà cosa e chissà perché. Ecco il motivo, per me importante, di raccontarli su un palcoscenico. Da un punto di vista del linguaggio si è trattato di scavare nell’apparente semplicità delle parole di Leavitt, e portare invece alla luce la complessità del mondo in cui vivono, per scoprire quanto siano universali. I dialoghi di Leavitt, brevi, essenziali, eppure inesorabili, hanno una forte potenzialità teatrale e la capacità di aprirsi a molte suggestioni. Ovviamente per adattare i racconti al palcoscenico ho dovuto sviluppare i dialoghi, trovare per i personaggi l’humus drammaturgico nel quale farli vivere, in alcuni casi ricreare situazioni, avvenimenti, luoghi che nei racconti erano appena accennati. Insomma, sono entrato come un viaggiatore attento e rispettoso nell’affascinante mondo di Leavitt, ho preso i miei appunti, ho sviluppato le mie idee e ho riportato a casa la mia versione dei fatti, quel punto di vista teatrale che permetterà di poter avere dal vivo (e in questo il teatro è ancora e per fortuna assolutamente unico) l’esperienza di un incontro con tre splendidi personaggi. Luca De Bei
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8 – 11 giugno |
MACADAMIA NUT BRITTLE (primo gusto) di |
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con: anna gualdo, andrea pizzalis, giuseppe sartori, mario toccafondi movimenti scenici: marco angelilli assistente regia: fausto cabra diario di bordo: francesco paolo del re regia: stefano ricci foto: mauro santucci
Non sappiamo quale sia la verità… l’importante è che l’ambiguità sia chiara. Per questo, nell’epoca delle passioni precotte, dei sentimenti in doppiopetto di grisaglia ci siamo saziati famelicamente alla tavola di Dennis Cooper, alla scabra poesia di cui è imbandito il suo universo letterario. Abbiamo tentato di raccontare, con mozartiana impudenza, una fiaba crudele sull’adolescenza. Scardinare le porte della cosiddetta normalità sessuale, suonare la grancassa del mondo dei foreveryoung, spargendo sale sulle ferite di una realtà brutalmente viva, è stato quasi automatico mentre sfilavano sotto gli occhi i temi ossessivi di Cooper. Le mutilazioni, le punizioni corporali, il sesso reiterato fino all’estinzione nascondono una pericolosa in quanto “pura” tendenza al gioco: un gioco infantile, uno svago che abbiamo dimenticato uscendo dalle mura domestiche. Il tempo che passa, il richiamo forzato ad una maturità catalogante lasciano intravedere la sagoma sfocata di un bambino che chiede aiuto. Ed è quello che abbiamo fatto. Siamo scattati alla richiesta di soccorso gettando un salvagente in un oceano: putrido come un reality show, duro e ghiaccio come i giorni da ex illusi cresciuti. Lo sguardo lisergico di Cooper si è intrecciato così con il nostro, nutrito dello stesso disagio, delle stesse mancanze, di identiche perdite. L’attesa notturna di quattro divoratori di gelato Haagen Dasz (il Macadamia Nut Brittle del titolo), in un reparto ospedaliero, su un aereo o in una casa dei giochi sull’albero, si materializza in un tamagotchi onirico, in cui si fanno i conti con un processo identitario LGBT che, se da una parte lascia liberi, dall’altra sviluppa un senso di estraniamento da un pianeta che ci scivola via sotto i piedi. Nella fluttuazione emotiva, privi di cintura di sicurezza, scendiamo in picchiata verso un libertinaggio imprevedibile che possa riappropriarci di un gusto, di un peso. La rumba degli strappi è iniziata; le lacerazioni segnano le figure trasformando in un incubo ad occhi aperti il sogno romantico della famiglia felice da Mulino Bianco. Vittime, carnefici, protagonisti di questo snuff movie che la vita offre siamo noi, alla disperata ricerca di amore in un mondo impossibile: perché alla fine anche la Natura, come gli uomini, è troia e infedele. Sempre. ricci/forte
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13 – 16 giugno |
CRONACA DI UN DISAMORE di regia di |
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dal romanzo omonimo dello stesso autore con: Giuseppe Gaudino, Nicola Nicchi, Barbara Begala musiche originali: Antonio Di Pofi scene: Chiara Taramanti costumi: Teresa Acone disegno luci: Augusto Canu aiuto regia: Federica Alesi assistente alla regia: Silvio Nanni regia: Enrico Maria Lamanna
Cronaca di un disamore racconta i giorni dell’abbandono di Luca, trentacinquenne, scrittore per la televisione, che vive in una grande città, e abita quello spazio vuoto dell’abbandono in cui ogni essere umano è rimasto intrappolato almeno una volta nella sua vita. Il racconto inizia con un risveglio doloroso. Luca è già stato lasciato da Maurizio, architetto, quarantenne, che è stato il suo compagno per quattro mesi. Quattro mesi d’amore, solo quattro mesi, eppure sufficienti a lasciarlo adesso afflitto dal ricordo e incapace di andare avanti, di riprendere a vivere normalmente. Luca è troppo ossessionato dal ricordo, dalla presenza di Maurizio (che è andato via, eppure è di fatto ancora lì) per poter respirare di nuovo. La narrazione si svolge su due piani temporali: nel presente Luca è solo e si trascina in una serie di giorni vuoti e senza luce, rotti a tratti da una presenza femminile, la sua migliore amica che muta, ascolta ricorda e filtra la sua storia; nel passato una serie di scene, non in ordine cronologoco, racconta l’evolversi della sua storia d’amore, i giorni della felicità, la vita in due, i viaggi, il sesso, la separazione improvvisa e infine l’abbandono. Solo nel finale, quando i due piani narrativi si confondono e si riuniscono in un presente emotivo, Luca trova la forza di staccarsi dal peso del ricordo e di avviarsi alla sua nuova vita, incamminandosi con la sua ferita verso un nuovo amore. L’azione scenica è divisa in due parti distinte, come se il palcoscenico rappresentasse per metà la solitudine nel presente e nell’altra metà l’ambiguo conforto nel ricordo. Maurizio, come una presenza sempre incombente, è costantemente visibile, dall’altra parte della scena, aspetta solo che Luca varchi lo spazio del ricordo per rivivere con lui i momenti del loro amore passato. Di notte, quando Luca dorme, Maurizio varca la linea inesistente che divide il presente dal passato e va a tormentare Luca, a illuderlo che tutto possa riprendere, che nulla è perduto. Un adattamento teatrale che rispecchia i due piani narrativi e temporali del romanzo, e che vede i due attori protagonisti sempre in scena. Luca però vive nel racconto anche da solo, ora monologante, ora spalleggiato dalle voci degli altri che gli arrivano come noises off, mentre Maurizio aspetta l’attivazione del ricordo dell’altro per tornare alla vita. "Cronaca di un disamore" è la storia dell’elaborazione di un lutto amoroso. In scena sono sempre presenti l’amante e il fantasma dell’amato. Un atto unico che è una discesa nella mente tormentata di un amante abbandonato, e che si conclude nel momento esatto in cui Luca, ritrovandosi sotto la finestra dell’uomo che aveva amato, capisce che potà riprendere a camminare faticosamente, con la sua ferita addosso. Ivan Cotroneo, Enrico Maria Lamanna
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18 – 21 giugno |
ALTRI AMORI regia di |
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Corti Teatrali Gay omaggio a: André Aciman, Aldo Busi, Peter Cameron, Ivan Cotroneo Michael Cunningham, Tony Duvert, David Leavitt Violette Leduc, Anaïs Nin, Rachid O., Walter Siti Pier Vittorio Tondelli, Edmund White, Jeanette Winterson drammaturgie di: Rosalinda Conti, Pietro Dattola, Alessandro Fea, Francesca Macrì Vincenzo Manna, Gaia Termopoli, Franca Zucca con: Andrea Capaldi, Mauro Conte, Riccardo Francia Maria Grazia Laurini, Francesco Martino, Noemi Parron assistente alla regia: Luana Occhipinti regia: GIUSEPPE MARINI
Frammenti di un discorso amoroso non risulterebbe inappropriato come possibile sottotitolo di questo palinsesto di scritture generate e liberamente ispirate da altre scritture, ma che da queste ultime rivendicano poi una propria autonomia. Una quindicina di liberi e volutamente brevi riattraversamenti drammaturgici da altrettanti romanzi – o comunque materiali letterari a tema – ispirati e commissionati al gruppo di autori di un corso di scrittura, compongono un interessante e variegato campionario di “altri amori” L’assenza di un unico plot o di una qualsiasi continuità stilistica e narrativa imponevano un tipo di impaginazione ispirata da criteri di spettacolarizzazione o teatralizzazione non consueti, che sapesse elevare la frammentarietà a suo statuto compositivo e dove un certo retrogusto letterario venisse non evitato come materiale spurio, ma semmai esaltato e ribadito. Una partita per testo/i e attori in grado di insinuarsi nell’immaginazione dello spettatore lasciata libera e sgombra da prevaricanti o semplificanti mimesis. Una scena vuota, fatta eccezione per qualche sedia che non è più lì per assolvere alle sue consuete funzioni, dove si sfoglia un ipotetico album di amori impossibili. Una “camera letteraria” dove si agitano disperate vitalità o sghembe eccentricità in perenne inseguimento di fantasmi o surrogati d’amore. Una liturgia profana officiata da anime vaganti in una sorta di purgatorio eterno o inferno privato per “sartriani” prigionieri. Un esercizio di distillazione alchemica dove anche materiali tradizionalmente altri (come le didascalie, promosse al rango di battute, talvolta in scansione scandalosamente lirica) vengono riusati per rafforzare e ribadire un gioco di reciproche e indecenti seduzioni tra Letteratura e Teatro. Un teatro, dunque, che invita e sollecita soprattutto all’ascolto, che sceglie di prosciugarsi per meglio esaltarsi e che non disdegna di utilizzare tracce non teatrali per un discorso teatrale. Giuseppe Marini
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22 giugno |
LE MANI SULL’AMORE di |
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dal romanzo omonimo – lettura d’autore di SANDRO LOMBARDI
Una clinica romana, sulle rive del Tevere, Carlo scrive a Lucio per temperare il dolore e la profonda depressione che hanno fatto seguito alla fine della loro burrascosa relazione. Carlo è un artista di fama internazionale, Lucio gli si è messo a fianco prima come discepolo attento, poi come amante volubile. È un progressivo abbandono all’amore, alla gelosia, alla dipendenza, e Carlo torna, con soprassalti di tenerezza, a rivisitare i momenti cruciali di questo abbandono. Si tratta di una relazione che, sin dai primi passi, rivela presagi e inquietudini, il rovello della differenza di età, l’incombere della paura e della gelosia, l’ambiguità del discepolo che pensa alla carriera da artista ancora da formare. Seduto nella sua stanza d’ospedale, accerchiato da una variegata umanità di dolenti, di folli, di santi, Carlo continua a scrivere e cerca di comprendere le ragioni della violenza e del distacco che sono succeduti all’amore, nel vano tentativo di riannodare un contatto con la vita, di dare un senso all’esistenza. Alla fine rimangono solo domande e premonizioni. Non ci sarà spazio per colpe, né le ragioni di un amore finito basteranno a compensare il vuoto. La degenza finisce, bisogna tornare alla vita di sempre: in lontananza l’eco di una musica sciocca e dolce sembra promettere e annunciare un ritorno alla normalità perduta.
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24 e 25 giugno |
VINCENT RIVER di regia di |
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traduzione di Fabiana Formica con Francesca Bianco, Michele Maganza scene Giorgio Baldo • musiche Francesco Verdinelli adattamento e regia CARLO EMILIO LERICI
Periferia di Londra. Un giovane è stato trovato morto nei bagni della vecchia stazione ferroviaria di Shoreditch, un luogo tanto noto per gli incontri fra omosessuali da essere definito dagli abitanti della zona "la Sodoma e Gomorra del quartiere”. Vincent River è il nome della vittima, protagonista “assente” di questo testo di Philip Ridley, autore poliedrico tra i più importanti e controversi della nuova generazione britannica. Dopo la morte di Vincent, sua madre Anita si è scontrata con l’atteggiamento ostile del vicinato tanto da essere costretta a traslocare, ma si accorge che un ragazzo continua a seguirla. È Davey. È lui che ha trovato il corpo di Vincent e non riesce a cancellare dalla sua mente il volto del morto. Con lo scorrere del gin, Anita e Davey poco a poco vincono la diffidenza. I racconti si intrecciano in un vertiginoso susseguirsi di emozioni e ricordi che inevitabilmente finiscono per incrociarsi in un drammatico finale. Carlo Emilio Lerici
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