Per chi come noi ama il cinema, trovarsi in un ambiente come quello di questo festival gay torinese, dove si ha facilmente la possibilità di incontrare personaggi che hanno fatto o stanno facendo la storia del cinema (non solo gay), è a dir poco esaltante. Tra questi vogliamo ricordare due figure simboliche che ai nostri occhi assumono un significato ulteriore, una specie di cambio della guardia, o meglio il segno di una continuità che si rinnova. Stiamo parlando di Adorfo Arrieta, un maestro del cinema undergrand europeo, che iniziava a produrre le sue opere già negli anni ’60, a cui il Festival dedica una breve retrospettiva che comprende “Le jouet criminel” (1969), un esplicito omaggio all’opera di Jean Cocteau, a cominciare dal suo protagonista Jean Marais che qui interpreta un personaggio misterioso e diabolico del tutto simile a quelli interpretati in alcuni film del maestro francese. La trama non è molto importante mentre contano di più i richiami ad alcuni miti ricorrenti in Cocteau, come la lotta tra il bene e il male e il passaggio dall’aldilà alla vita e dal sonno alla veglia. Ciò che ci è piaciuto di più in questo film oltre alla sua bellezza estetica è la divertente incursione del personaggio di Marais nei posti di battuage della Parigi di quel periodo (1969).
Nella presentazione di “Les Intrigues de Sylvia Couski” Arrieta ha voluto farci un regalo fuori programma mostrandoci in anteprima il suo ultimo lavoro appena terminato, “Dry Martini” ( Buñuelino Cocktail ) un corto ambientato ai giorni nostri in un bar di Madrid, con un testo di Luis Bunuel, nel quale il regista esaltava le virtù di vari cocktails e del fumo. Con Arrieta era presente anche il giovanissimo narratore italiano. (R.M.)
“Queer China” di Cui Zi’en
Il secondo è Cui Zi’en, il fondatore del cinema e della cultura gay in Cina che ci ha già regalato diversi interessantissimi ed originali film (alcuni proiettati qui a Torino negli scorsi anni, ma Cui Zi’en è anche un famoso scrittore e professore universitario) e che quest’anno presenta un lungo e interessantissimo documentario sulla storia del movimento LGBT in Cina, sui personaggi che lo hanno costruito o coadiuvato, su tutto quello che è stato fatto nel campo della cultura, letteratura e cinema queer. Mentre guardavamo il film eravamo stupiti dalle tante similitudini che riscontravamo tra le lotte che stanno conducendo i gay cinesi e quelle che abbiamo condotto in occidente in questi ultimi trent’anni. Anche se i gay attivisti cinesi sono partiti molto dopo di noi, in pratica riescono a farsi notare dai primi anni ’90, a noi è venuto il sospetto che presto, come sta succedendo nello sviluppo economico, la Cina potrebbe superarci anche nel campo dei diritti e riconscimenti LGBT (nel doc alcuni attivisti hanno, ad esempio, chiesto al governo di legalizzare i matrimoni gay e questo non gli ha risposto negativamente, ma solo che è troppo presto e che non vorrebbero essere la prima grande potenza a farlo). Quando parlando con Cui Zi’en gli abbiamo esposto questa nostra impressione, egli si è messo a ridere, perchè secondo lui invece la strada è ancora lunghissima e difficile. Ci ha detto che in alcuni campi, come la letteratura o la ricerca universitaria (cosa documentata molto bene nel film) c’è oggi molta libertà, e vengono pubblicati molti saggi sull’omosessualità; c’è anche molta libertà nel campo economico imprenditoriale, cosa che permette l’apertura di locali gay, bar e saune; ma quando si parla di mostrare l’omosessualità al cinema o in televisione, le cose cambiano e la censura è molto vigile. Ne è testimonianza la storia dei primi festival di cinema gay in Cina, organizzati proprio da Cui Zi’en insieme a pochi altri. Il primo, del 2001, nonostante fosse assai artigianale e coinvolgesse un pubblico ristretto, è stato fatto chiudere al terzo giorno. Il secondo, del 2005, organizzato all’interno dell’Università di Pechino, con anche una mostra d’arte, fu fatto chiudere subito e si è potuto svolgere, praticamente in clandestinità, grazie al trasferimento di tutto il materiale in un capannone alla periferia di Pechino. Nonostante ciò stanno crescendo in Cina gli autori che si dedicano alla regia di opere a tematica, grazie all’aiuto delle università (sembra che in Cina la ricerca sia molto ben vista dalle autorità) ma la distribuzione di queste opere avviene poi solo nei festival internazionali. Lo stesso vale per la televisione, dove fino ad oggi solo due programmi sono riusciti a presentare un dibattito sull’omosessualità (in uno, mostrato nel doc, si sente uno spettatore che dice pressapoco: “ma così stiamo insegnando a tutti come diventare gay”). Abbiamo chiesto a Cui Zi’en il perchè di questa omofobia, visto che hanno il problema della sovrappopolazione e non hanno dei dogmi religiosi come quelli cattolici in occidente. La risposta è stata che in Cina sono fortissimi il senso della tradizione e della famiglia. L’omosessualità è vista dalle autorità come un pericoloso incentivo alla disgregazione delle famiglie. Cui Zi’en ci ha detto che ha in progetto diversi film di fiction, ma che ora è impegnato con un’opera letteraria. Speriamo comunque di vederlo qui a Torino nel programma del prossimo anno, se non altro con qualche opera inedita delle moltissime da lui già fatte.
“Rabioso sol, rabioso cielo” di Julian Hernandez
Piatto forte, in tutti i sensi, della giornata, sono state le tre ore e passa dell’ultimo film di Julian Hernandez, “Rabios sol, rabioso cielo”, reduce dal prestigioso Teddy Award della berlinale con quest’opera strabiliante. Diciamo subito che il film non è facile, ambientato per metà in un luogo di battuage (più camera da letto) e per l’altra metà in uno splendido paesaggio onirico di alta e brulla montagna. I protagonisti, quasi sempre completamente nudi, sono dei bellissimi ragazzi, con una breve apparizione all’inizio e alla fine del film di una donna/oracolo. Il tema del film è l’amore (gay), la sua laboriosa ricerca (esemplificata tra parchi, cessi, cinema di battuage), la paura della sua perdita (il tradimento possibile, rappresentato da un “diavolo” tentatore che lo insegue dappertutto mentre lui cerca il suo amore), la fatica per riconquistarlo (l’amico che scala la montagna, sperimentando il dolore, la solitudine e la lotta), e alla fine la poetnza dell’amore che vince sulla morte. Purtroppo abbiamo dovuto raccontarvi praticamente tutta la trama, ma vi assicuriamo che in questo caso non rovina la visione del film, che è un incomparabile piacere per gli occhi e per i cuore, un viaggio assolutamente lirico e poetico nel mondo dell’amore corporale e spirituale, dell’ansia del desiderio e dell’assoluto.
“Les Parents” di Christophe Hermans
Il regista belga Christophe Hermans ci introduce il suo commovente documentario in concorso “Les Parents” , che tratta di un argomento veramente inusuale nei nostri festival: la storia di una piccola casa di riposo per anziani, gestita da una coppia gay, Alain e Richard.
Il regista li segue nel loro lavoro per ben due anni, fino a quando questi non decidono di ritirarsi da tale attività dopo aver sistemato altrove le ultime tre ospiti.
Una persona del pubblico chiede se l’aver scelto come protagonisti due gay non dipenda anche dal fatto che la società dia per scontato che noi gay (che non abbiamo una nostra famiglia) dobbiamo prenderci cura degli altri. Il regista spiega che in realtà egli aveva visitato diverse case di riposo a conduzione famigliare, molte delle quali gestite da coppie eterosessuali, ma è stata proprio la coppia gay, infinitamente paziente ed affettuosa verso suoi ospiti, a fornirgli la dimostrazione più convincente di come una struttura famigliare sia più adatta a prendersi cura degli anziani rispetto alle grosse strutture pubbliche. Al regista interessava soprattutto descrivere il passaggio del tempo nelle nostre vite, rappresentato simbolicamente dall’immagine finale di un ramo al quale rimangono attaccate delle foglie secche mosse dal vento.
Il titolo del documentario ha un doppio significato in quanto i due protagonisti avrebbero voluto gestire una casa famiglia per bambini, ma in Francia (e figuriamoci da noi..) una coppia gay avrebbe dovuto affrontare problemi legali quasi insormontabili.
Un altro spettatore, che dice di lavorare in una casa di riposo, chiede se non si sia rischiato di invadere la privacy degli anziani mostrando gli effetti su di loro dell’Alzheimer . E in effetti la parte più divertente del documentario è stata quando Alain con molta pazienza cerca di riportare alla realtà una ospite convinta che suo padre, andato in guerra nel 1918, sia appena tornato ed abbia tre anni. Il regista assicura di non avere avuto certamente l’intenzione di prendere in giro l’anziana malata, ma piuttosto voleva descrive gli sforzi di Alain nel cercare di far regredire in qualche modo la malattia. Uno dei momenti più toccanti del film è quando l’anziana in questione riacquista lucidità e ammette di avere l’ Alzheimer e di non ricordare le cose.
La storia raccontata non è purtroppo del tutto a lieto fine (come ha detto il regista non è tutto o bianco o nero). Alain e Richard in passato vivevano in una splendida isola delle Antille francesi della quale rimpiangono il calore sia atmosferico che umano, tutto l’opposto dello sperduto villaggio della Dordogna dove essi hanno aperto la casa di riposo, in cui la coppia non è riuscita a fare amicizia con nessuno. Per questo i due hanno preso la decisione di vendere la casa. A questo si è poi aggiunta la malattia di Richard, che nel film sembra cirrosi. In realtà il regista ci dice che Richard è poi morto di AIDS.
BEAUTIFUL CRAZY di Lee Chi Y.
Amy, Xiao Bu e Angel sono tre adolescenti alle prese con i primi amori e le prime delusioni. Il film segue il flusso dei loro pensieri e non racconta i fatti in ordine cronologico. Come lo stesso Lee Chi ha dichiarato “ho usato la tecnica del flashforward anzichè dei flashback, in modo da mostrare prima il risultato e poi cosa ha portato a quel risultato”. Il risultato è un film magnifico e coinvolgente, dai colori vividi e dalla musica a volte soave a volte concitata, proprio come i pensieri delle protagoniste.
Lee Chi continua affermando che “il film si evolve come il ricordo umano. Andare al cinema per me è come sognare, non si tratta solo di stare davanti a uno schermo perchè qualcuno ci racconti una storia, bisogna essere partecipi”. Questo montaggio favorisce decisamente la partecipazione dello spettatore, che è chiamato a dare una propria interpretazione secondo il proprio vissuto. Magistrale l’uso della fotografia e dei colori. (G.B.)
FRASH KILL di Shu Lea Cheang
Fresh Kill non è solo il titolo di un film, ma anche il nome della discarica a cielo aperto di Staten Island, alla periferia di New York. Il film infatti è una precoce denuncia contro l’inquinamento, la cieca avidità e i mass media. All’interno dunque sono state inserite molte sequenze tratte da pubblicità, rudimentali effetti speciali e l’incontro con le prime tecnologie, in contrapposizione con una certa pazzia che sembra aver colpito molti personaggi.
In questo affresco si collocano Shareen e Claire, una coppia di lesbiche che crescono la loro figlia Honey. Quest’ultima un giorno sparisce misteriosamente, proprio quando emerge il collegamento tra la GX, un’importante multinazionale americana, e pesce radioattivo commercializzato dal ristorante Naga Saki, dove lavora Claire, e acquistato dalla multinazionale per farne cibo per gatti.
Molto interessante l’approccio con i media: il film è pieno di televisioni, ma quella che si vede più volte è una vecchia TV abbandonata in riva al mare. Inoltre c’è l’ossessiva ripetizione dello spot della Gx “We Care” (“A Noi Importa”), che va in contrasto con quello che succederà poi col pesce pescato in acque inquinate. Dopo ogni spot si vede una semplice equazione dal triste risultato, come “control = freedom” (“controllo = libertà”) e “green = greed” (“verde = avidità”), non a caso il colore scelto per indicare i corpi contaminati è il verde, il colore dell’ecologia, che oggi, quindici anni dopo, si propone di salvare il pianeta.
Un altro spunto quanto mai attuale è quello che riguarda lo smaltimento dei rifiuti, non sempre efficiente e spesso effettuato in luoghi inappropriati. Nel film si vedono momenti di protesta da parte degli africani che non vogliono più essere la spazzatura di nessuno.
Per scoprire l’inganno della GX ci vogliono le nuove tecnologie e quindi un amico di Shareen e Claire si improvvisa hacker ed entra nei computer della multinazionale.
“Fresh Kill” si potrebbe definire un film surrealista o una “eco-cybernoia” come la stessa Shu Lea Cheang lo ha chiamato. Ironico e molto sottile, la sua visione è consigliata a tutti. Voto 8. (G.B.)
CuiZi’en parla della Cina queer
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Cui Zi’en, regista di "Quer China"
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Cosimo Santoro, Cui Zi’en
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Wei Jiangan ("Queer China")
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Lee Chi Y., regista di "Beautifull Crazy"
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