Another Gay Sequel: Gays Gone Wild” di Todd Stephens
Oggi è stata la giornata di Todd Stephens, o meglio, del suo film “Another Gay Sequel: Gays Gone Wild” che ha riempito la sala grande del cinema Ambrosio nonostante fosse un lunedì dopo un ponte di tre giorni (genialata degli organizzatori che hanno messo sabato e domenica sera film difficili e di altissima qualità, che hanno così potuto essere visti da moltissimi, e lasciato che il film di Todd Stephens attirasse il suo numerosissimo pubblico di giovanissimi). Il regista, prima della proiezione ha salutato il pubblico e il festival dicendo: “Grazie, saluto ognuno di voi, grazie per avermi invitato, è la terza volta che vengo a questo Festival, sono stato qui nel 2003 con “Gipsy 83” e nel 2006 con “Another Gay Movie”. Torino è una città che adoro… Ringrazio anche Ricke, Cosimo e Paolo per essersi presi cura di noi in tutti questi anni e credo che il mio film vi possa far ridere perchè ridere è una delle cose che ci rende veramente liberi. Grazie.”
Il film ha lasciato tutti soddisfatti, in parte anche i più critici che lo hanno giudicato migliore del primo, con momenti di grossolana comicità (i fiumi di vomito, la colla al posto del lubrificante) mescolati a momenti di ironia più sottile fino a qualche gradevole intermezzo quasi lirico come l’incontro con il sireno. I nostri eroi, superbonazzi e quasi sempre nudi (e in “azione”), strappavano applausi ad ogni battuta, mettendo alla berlina gli atteggiamenti più stereotipati della sessomania gay (la storia del film, che si svolge in un villaggio di vacanza gay, è tutta in una gara a chi riuscirà ad avere il maggior numero di rapporti anali) e della sfrenata concorrenza tra adoni più o meno muscolosi. Naturalmente il film si conclude con la vittoria dei sentimenti sul sesso sfrenato, ma state sicuri che, come annunciano alla fine gli stessi protagonisti, è già in lavorazione il terzo film della serie con ancora tanta “carne” da mettere al “forno”.
“L’altra metà del cielo” regia di Salima Balzerami
Abbiamo finalmente potuto vedere il bel documentario italiano, “L’altra metà del cielo” progettato e interpretato da Maria Laura Annibali, una lesbica militante romana, che ha voluto mettere a disposizione del popolo gay e lesbico la sua esperienza di vita e all’interno del movimento. Attraverso interessanti interviste ad alcune lesbiche dichiarate (tra le quali anche Maria Laura), differenti per età, storia, lavoro e riferimenti ideali, vengono affrontati i problemi e le difficoltà che la maggior parte delle lesbiche devono superare per liberarsi da una società maschiocentrica ed omofobica, spesso pagando un duro prezzo in sofferenza e solitudine. Impossibile non rimanere esterefatti davanti a certi racconti, come quello di Edda, già lesbica dichiarata negli anni ’50 che alla consegna del passaporto si sente dire “Io il passaporto glielo do, ma, mi raccomando, non ci faccia vergognare all’estero!”. Qualche perplessità personale l’abbiamo avuta con certe dichiarazioni che si rifanno ad un separatismo che oggi ci sembra anacronistico e controproducente e con un accenno alla libertà di tradimento nella coppia purchè non venga sbandierato. Ma sulle idee come sulla religione non ha senso criticare, all’ocorrenza è possibile confrontarsi e la Annibaldi si è dimostrata disponibilissima e felicissima di chiacchierare col pubblico. In un’altro articolo pubblichiamo la bella intervista che ha rilasciato alla nostra Gaia.
“No Woman’s Land” di Anne Smolar
In concorso altri due documentari impegnativi, il primo “No Woman’s Land” della belga Anne Smolar che affronta un tema stimolante, quello dell’utilità o meno di trasferirsi a vivere in un’altro paese, magari più libero nei confronti delle identità sessuali, o anche solo per rinnovarsi nella propria vita. Ascoltiamo le esperienze di alcune lesbiche, anche qui ognuna con idee molto differenti e anche contrastanti, che rendono interessante il film, che utilizza stacchi con spezzoni di film classici (Il mago di Oz, Alice) e fastidiosi giochetti sui titoli dei capitoli. Purtroppo anche qui siamo rimasti personalmente perplessi ascoltando donne che a 23 anni non sono ancora sicure della loro identità, mentre ci è piaciuto molto quando fanno capire che più del territorio fisico in sè, conta il rapporto che stabiliamo con le persone e le cose che lo compongono.
KHASTEGI di Bahman Motamedian
Sette transessuali iraniani vivono sullo schermo frammenti della loro difficile vita. Si tratta di sei ragazzi che si sentono donne e di una ragazza che vorrebbe essere un maschio.
Questo documentario offre moltissimi spunti su cui argomentare, trattando l’argomento, già controverso, in una cultura così distante dalla nostra.
La reazione della famiglia è prevedibilmente molto violenta: botte, minacce, sequestro, denunce… La reazione della gente, invece, da un lato non risparmia risatine e commentini, sguardi perplessi e discriminazione, dall’altro però stupisce. Alcuni di questi transessuali sono fidanzati e supportati dal compagno, disposto anche a separarsi dalla moglie. Anche le forze dell’ordine sembrano schierarsi dalla parte dei transessuali nel momento in cui vengono ingiustamente denunciati dalla famiglia.
Il documentario fa riflettere anche sulle difficoltà che comporta farsi l’operazione: è difficile trovare un dottore che sia disposto a farlo e comunque è costoso e si è completamente lasciati a se stessi. Come se non bastasse molti ragazzi non vogliono sottoporsi all’intervento perchè diventare donna causerebbe la conseguente perdita di tutti i diritti e privilegi “per soli uomini”, tipici di una società patriarcale e maschilista come quella islamica.
E’ dunque una decisione molto difficile da prendere. Esistono però alcuni gruppi di supporto a cui ci si può rivolgere. Credo che il messaggio che “Khastegi” si propone di trasmettere si possa riassumere nel fatto che per essere transessuali in posti come Teheran bisogna avere veramente tanto coraggio, perchè, nel migliore dei casi, si perderà tutto ma si sopravviverà. (G.B.)
“Soundless Wind Chime” di Kit Hung
Siamo rimasti leggermente delusi da “Soundless Wind Chime”, opera prima del cinese Kit Hung, apprezzandone la capacità figurativa e la costruzione delle immagini non ci ha altrettanto convinto il montaggio, tra passato e presente, vivi e morti, un paese e l’altro, che ne rende un po difficoltosa la comprensione (dobbiamo anche dire che era mezzanotte ed era il quinto film che vedevamo nella giornata). Il film sta comunque ottenendo riconscimenti in molti festival, è stato uno dei tre selezionati per il Teddy Award di Berlino e in questo festival concorre per il premio Nuovi Sguardi.
Alla fine del film il regista ha risposto ad alcune domande del pubblico, iniziate con Santoro che chiede. “Questo film ha avuto una gestazione molto lunga, volevo sapere che cosa ti ha portato a realizzare una storia così, quanto c’è di personale in questo film e se hai incontrato difficoltà nel realizzarlo. Il regista vive in Svizzera, è nato in Cina ed ha vissuto ad Hong Kong e penso che sia interessante questa commistione tra l’Europa e l’estremo oriente.”
Kit Hung: “La storia è stata ispirata da una morte, la prima volta che mi sono confrontato con la morte. Quattro anni fa i genitori del mio ragazzo sono morti di malattia. Durante questo periodo mi sono trovato in Svizzera, dove non parlando la lingua del posto ho potuto comunicare solo con lo sguardo e il linguaggio del corpo. Si crea un rapporto particolare con le persone quando sai che devono morire, un rapporto unico, e questo film è il risultato di questa mia esperienza. Alle volte mi svegliavo dopo la loro morte, ad esempio alla domenica, alzandomi, pensavo di doverli andare a trovare poi, in seguito, mi dicevo ‘guarda che sono morti’. Questo film parla anche della dicotomia, della lotta, tra il cosciente e il subcosciente, e quanto tempo ci vuole perchè ci rendiamo conto che una persona è morta. Nel film i dialoghi non sono fitti e questo esemplifica il tipo di comunicazione che si viene a creare tra un popolo che può essere come quello svizzero e quello cinese, una comunicazione basata sul linguaggio corporeo. Dopo aver realizzato i dialoghi e la sceneggiatura ho dovuto trovare un team per realizzarlo e trovare anche delle fonti di finanziamento, cosa non facile perchè questo è il mio primo film. Infine abbiamo avuto finanziamenti da parte del governo locale di Honk Hong e da organizzazioni culturali della Svizzera”. Il regista ha poi detto di stare preparando il suo prossimo film: “una storia concentarta su un carattere femminile, come potrebbe essere quello di mia madre, una tipica donna cinese il cui primogenito è omosessuale. Nella famiglia cè anche una figlia che sta per sposarsi e voglio parlare di tutte le speranze che la madre ripone in questo matrimonio che invece il filgio gay prende un po’ ironicamente“.
Santoro sottolinea come nel film ci sia moltissima musica e chiede al regista come l’abbia scelta. Hung risponde che “diverse cose devono entrare nella composizione di un film. Ci sono parti che sono imperfette che devono tali: il suono, la musica e la fotografia sono elementi complementari che formano la totalità del film. Io consiglio dunque ai cameramen di non realizzare riprese perfette al 100%; e anche la musica è bello che abbia qualche imperfezione. Il tipo di musica usata in questo film si chiama “micromusic”, una musica molto emotiva, che porta il telespettatore a guardare dentro di sè.”. A una domanda sulla rappresentazione del sesso nel film, Hung risponde: “L’amore può essere innocente e l’amore omosex è stato spesso esagerato nei film, così io ho cercato di normalizzare questo gap tra i film a tematica omosex e gli altri film per far capire alle persone che il nostro amore non è diverso da quello delle coppie etero e che ci possono essere delle buone relazioni che non si basano solo sul sesso”.
BENNI HAS 2 MOTHERS di Vivid Tjipura (Cortometraggio)
In Sudafrica è appena stata approvata la legge che permette agli omosessuali di sposarsi, così le due mamme di Benni decidono di fare il grande passo. Benni accetta di buon grado e anche i suoi amici nel complesso accettano.
Questo cortometraggio ritrae un Paese quasi idilliaco, eppure i passi avanti da fare in Sudafrica sono ancora molti, come dice la rappresentante di Out In Africa: “E’ difficile essere omosessuali in una società nera e conservatrice come quella sudafricana”. Nelson Mandela ha fatto tantissimo per questa Nazione, ora tocca ai cittadini fare la differenza. Voto 8(G.B.)
SOCIETY di Vincent Pontsho Moloi
Due serie tv in un Festival come questo di Torino significa che deve trattarsi di due opere particolarmente significative ed interessanti. Cominciamo a parlare di Society, quattro episodi che vengono presentati come un normale film, per raccontare l’amore, le amicizie e la difficoltà di accettarsi e di farsi accettare di Beth, un’insegnante sudafricana lesbica che ancora non ha trovato il coraggio per fare outing.
Un giorno riceve la telefonata di Akua, un’amica che non sentiva da una decina d’anni, che le comunica che la loro amica Dineo si è suicidata. Beth, Akua, Inno e Lois decidono di trovarsi al funerale della loro amica e ognuna porta con sè dieci anni di vita in più da raccontare, ognuna ha i propri scheletri nell’armadio, dall’omosessualità di Beth alla gravidanza di Lois, dalle difficoltà economiche di Inno all’ossessività di Akua.
Thuli, la compagna di Beth, resta a guardare senza poter dire chi è davvero per non mettere in difficoltà la sua partner, ma la situazione è molto pesante e non la regge facilmente.
Forse la morte di Dineo farà riflettere le altre quattro e farà loro superare gli ostacoli per iniziare un nuovo capitolo della loro amicizia lasciata in sospeso dieci anni prima.
La rappresentante di Out In Africa ci parla di quanto sia effettivamente difficile, nonostante l’emancipazione legislativa, produrre una serie come questa in Sudafrica: “Dovevano esserci scene di sesso, ma alla fine produttori e sceneggiatori si sono ritrovati a barattare due baci e un abbraccio anzichè due abbracci e un bacio”. Pertanto “Society” non rappresenta il panorama televisivo sudafricano, ma piuttosto una realtà che c’è, che è difficile da accettare e da rappresentare. Voto 7 (G.B.)
SUGAR RUSH (serie tv)
All’inizio di ogni puntata Kim (Olivia Hollinan), la protagonista, si presenta come “una quindicenne lesbica, vergine, ossessionata dalla sua migliore amica” Sugar (Lenora Crichlow).
Alle prese con il trasloco e il nuovo ambiente, i tradimenti di sua madre e le stranezze di suo fratello, Kim trova rifugio solo in Sugar, la quale però sembra più interessata a qualsiasi essere maschile che si muova piuttosto che a lei. Kim ne escogita di tutti i colori per farsi notare, ma le manca il coraggio per dichiararsi.
Sugar Rush è quello che mancava alle lesbiche della mia generazione: una serie televisiva che le rappresenti nel loro primo approccio all’omosessualità, nei primi insicuri batticuore.
Channel 4 ha avuto un’ottima idea dunque (e un bel coraggio) a trasmettere “Sugar Rush”, che ha ricevuto il prestigioso International Emmy Award 2006 nella categoria Bambini&Adolescenti.
Non è vero che guardare una serie come questa può “deviare” le ragazzine, anzi piuttosto può aiutarle, può farle sentire meno sole e più se stesse. Oltretutto l’impatto che “Sugar Rush” ha con il contatto fisico è molto soft, molto delicato, proprio per non mettere a disagio le giovani telespettatrici.
Restiamo dunque in attesa di poter vedere “Sugar Rush” qui in Italia, e magari anche una serie TV sulla falsa riga di questa che sia un prodotto italiano, perchè, che ci crediate o no, l’omosessualità esiste e pertanto bisogna parlarne e trattarla nel miglior modo possibile perchè tutta la società ne giovi. Voto 8 (G.B.)
Maria Laura Annibali parla del suo film "L’altra metà del cielo"
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Todd Stephens, regista di Another Gay Sequel…
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Giovanni Minerba presenta Maria Laura Annibali (foto Luca Gallizio)
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Maria Laura Annibali (L’altra metà del cielo)
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Kit Hung, regista di "Soundless Wind Chime"
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Kit Hung
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Ricke Merighi
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Alessandro Fullin nelle vesti di spettatore
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