Oggi, giornata festiva del 25 aprile, gli spazi del Festival alla multisala Ambrosio sono stati gremiti di pubblico per tutta la giornata. Qualche ritardo alle proiezioni (per incidenti tecnici) ci ha fatto fare ancora le ore piccole, ma grazie soprattutto all’ottima qualità dei film presentati abbiamo resistito fino alla fine sempre con le palpebre ben sollevate.
“Forasters” e premiazione di Ventura Pons
Evento centrale della giornata è stato l’incontro con il regista Ventura Pons, premiato dal Festival per l’insieme della sua opera (a nostro giudizio se il suo ultimo film, “Forasters”, fosse in concorso potrebbe vincere). Attivo nel mondo del cinema dal 1977 con un film subito selezionato dal festival di Cannes (“Ocana, retrait intermitent“), ha realizzato fino ad oggi 19 lungometraggi, tra i quali gli splendidi “Carezze” e “Amic/Amat” (reperibili in DVD nella collana Queer).
Il direttore Minerba presenta il regista Ventura Pons a cui consegna uno dei premi speciali di quest’anno. Il festival nel corso degli anni ha proiettato praticamente quasi tutti i film di questo regista, purtroppo quasi mai distribuiti in Italia.
Pons si schernisce per il suo italiano, in realtà ottimo, imparato molti anni fa all’università e ci introduce il suo film, premettendo però che non gli piace parlare di un film prima che sia stato visto. “E’ la terza volta che faccio un adattamento da un autore che mi piace molto, Sergi Belbel,attualmente uno dei migliori drammaturghi europei. Lui è catalano come me. Con lui avevo già fatto due film il primo dei quali “Carezze” credo sia stato il primo che ho presentato a questo festival 12 anni fa. Poi ho fatto un altro film che mi piace molto “Morir (o no)” (mai presentato in questo festival perchè non a tematica gay).
Il film di oggi non è propriamente a tematica gay, c’è però una storia gay che è la più positiva di tutto il film. Ho lavorato cosi tanto con Sergi Belbel perchè il suo non è un teatro convenzionale con un primo, un secondo, un terzo atto, ma ha una costruzione drammatica molto differente, cosa che a me piace molto e che ho apprezzato in tutte le sue opere. A me piacciono lavori un po differenti dalla struttura tradizionale.
Questo film ha una struttura un po’ più convenzionale, ma ha una particolarità: la trama è divisa in due parti dove si mescolano due storie con protagonista la stessa famiglia, in due epoche diverse: il 1968, anno della caduta del Franchismo e i giorni nostri. Il ’68 è l’anno dela fine della dittatura franchista con la sua miseria morale, civica, sociale e intellettuale. Il Franchismo era molto noioso, noioso anche per la nostra società, che era stanca di tutto questo e questo clima aveva un riflesso nella nostra moralità. Invece in questi quarant’anni dal 1968 fino all’epoca attuale, c’è stato un sorprendente progresso morale e sociale nel mio Paese e nel mondo. La storia che racconto gira attorno a questo e gira attorno ad una famiglia maledetta colpita da una maledetta malattia. E’ forse come una parabola.
Una cosa che mi piace molto di questo film è la ripetizione degli eventi della vita, come noi rifiutiamo tutto dei nostri genitori e poi ripetiamo le stesse cose. Ho detto prima che non è un film gay, ma c’è il personaggio del figlio, che è gay, e che nel 1968 è sotto la pressione della madre, che in una scena che mi piace molto, quella del bagno, gli dice di non fare certe cose, di non dirlo a nessuno, di sposarsi e poi di fare sesso solo con sconosciuti. Lui decide invece di prendersi la libertà di accettare se stesso e questa libertà rappresenta il progresso nella vita, di fronte alla condizione omosessuale.” Pons sarà sicuramente presto ancora ospite di questo fesival visto che ha già in preparazione i suoi prossimi tre film.
A HORSE IS NOT A METAPHOR di Barbara Hammer
Ospite fisso di questo festival, che l’ha omaggiata ampiamente lo scorso anno, è la grande regista Barbara Hammer che ci presenta due film molto personali.
Il primo, “A Horse Is Not a Metaphor”, è un cortometraggio così intenso da sembrare un vero e proprio film. I tempi si dilatano, grazie anche alla magnifica colonna sonora curata da Meredith Monk, ma soprattutto per il particolarissimo montaggio, a metà tra film sperimentale e vera e propria opera d’arte.
Il film segue il percorso della Hammer nella sua lotta contro il cancro alle ovaie, dalla chemio alla riabilitazione, dalle analisi preliminari a test e controlli.
Alcune istantanee sono forse un po’ crude, ma probabilmente la cosa è voluta dato l’argomento che tratta.
Come si evince dal titolo i cavalli sono una presenza rilevante nel film e Barbara Hammer li raffigura e si raffigura come un unico corpo, una sola cosa con loro, per questo il cavallo non è una metafora, come afferma il titolo, ma piuttosto una simbiosi.
Molto importanti sono anche i ritratti, talvolta accompagnati dalle parole della regista, che la rappresentano nei vari stadi della malattia: il corpo che tende a sformarsi, i capelli che si diradano, fino a giungere, con l’aiuto di tecniche cinematografiche, ad un’immagine radiografica, scheletrica.
In principio la donna cammina sola, forse anche per cercare di capire il cancro che la sta lentamente divorando, poi alla fine vediamo i corpi fusi nell’unica ombra con le teste continuamente sovrapposte dal montaggio.
Suoni, voci, musica e immagini si intrecciano, si rincorrono e fanno di questo film un vero e proprio capolavoro, anche se non facilmente comprensibile. Non per niente ha vinto il Teddy Award 2009 come Miglior Cortometraggio. (G.B.)
DIVING WOMEN OF JEJU-DO di Barbara Hammer
L’isola di Jeju-Do, in Corea del Sud, è famosa proprio per loro, per le donne pescatrici, che si immergono ogni giorno portando avanti una tradizione secolare. Purtroppo però oggi, a causa dell’inquinamento, c’è poco da pescare e le giovani figlie delle haeyno, emancipatesi, non vogliono seguire le orme delle loro madri, ritenendo il loro lavoro pesante, rischioso (è vietato fare assicurazioni sulla vita alle haeyno) ed umiliante.
Barbara Hammer segue le donne pescatrici in una loro immersione per documentare la loro abilità nel nuotare, nell’immergersi in apnea per recuperare molluschi, alghe e, se sono fortunate, un polpo, la cui vendita rappresenta l’unica fonte di sostentamento. Quella delle haeyno si configura come uno stile di vita, una vera e propria casta di sole donne (non si vede un solo uomo in tutto il film) che sono fiere di quello che fanno e dispiaciute perchè sanno che nel giro di qualche anno questa tradizione sarà scomparsa.
Le hayno ci raccontano la storia di Jeju-Do, dalla rivolta contro i giapponesi all’indipendenza dagli Stati Uniti. Ad unificare il tutto, come sempre, una sublime colonna sonora.
Nei film di Barbara Hammer, che tanto ha fatto per il cinema lesbico, più della storia raccontata contano le sensazioni che suscitano con la fusione immagini e suoni/musica. E’ di questo che sono fatti i suoi film: di impressioni, nel senso artistico del termine. Non si possono raccontare, piuttosto si osservano, si assimilano e si portano con sè. (G.B.)
GIORGIO/GIORGIA… STORIA DI UNA VOCE di Gianfranco Mingozzi
Questo bellissimo documentario di Gianfranco Mingozzi ripercorre la vita di Giorgia O’Brien (all’anagrafe Giorgio Montana), attraverso le parole della stessa.
Il documentario è suddiviso il capitoli e si apre con le parole nostalgiche di Giorgia O’Brien sulla sua infanzia palermitana, nel corso della quale si è subito sentita diversa: suo padre lo definiva “aruso” (gay in siciliano), mentre il piccolo Giorgio si sentiva una bambina. Un giorno, cantando sulla musica della radio, Giorgio scoprì di avere un’estensione vocale unica, che può spaziare dai toni baritonali a quelli del soprano. Decide così, ancora ragazzo, di tentare la carriera di cantante d’opera, ammaliando i giudici in principio un po’ scettici. Comincia così la sua lunga carriera nell’avanspettacolo, ripercorsa dal documentario con immagini, testimonianze e interviste.
In principio era solo questione di “travestimento”: Giorgio si sentiva più a suo agio in abiti femminili e, aiutato dalla sua estensione vocale, impersonava sempre un doppio, una donna, soprano, estremamente bella e sensuale che, quando si spegnevano le luci, si trasformava in un giovane cowboy (baritono). La sensazione crebbe sempre di più, fino a diventare un’esigenza che spinge Giorgio Montana a diventare Giorgia O’Brien in tutto e per tutto. Supportata degli amici e del compagno di vita Georges, si rivolge dunque ai medici di Casablanca, che le regalano finalmente il sesso femminile. Era il 1970, in Italia travestitismo e transessualismo erano fenomeni pressochè sconosciuti e allontanati, eppure Giorgia continua a calcare celebri palcoscenici.
Il documentario indaga poi gli amori di Giorgia O’Brien, che lei racconta senza molto pudore divertendo l’affollata platea. Comunque l’amore di tutta una vita resta il compagno Georges, che ha potuto sposare solo dopo essersi sottoposta all’operazione.
Il film si chiude sempre in Sicilia, vicino a Palermo, che Giorgia ha sempre portato nel cuore desiderando un giorno di potervi far ritorno, magari per un’esibizione.
Ritratto vivace, allegro della malinconica e coraggiosa figura della soubrette-cantante Giorgia O’Brien. (G.B.)
FUCKING DIFFERERENT TEL AVIV
Presente il produttore Kristian Petersen e il regista Nir Nè Eman
Antologia di 12 cortometraggi che descrivono la vita di gay e lesbiche a Tel Aviv, con la particolarità che è stato richiesto ai registi gay di filmare storie lesbiche e viceversa. Il film è costato soltanto quattromila euro. Tel Aviv ha una realtà gay molto vivace (anche se in questo non rappresenta il resto del Paese) e anche le feste religiose sono occasione di vivacissime feste en travesti. In un paio d corti si affronta il problema delle profonde contraddizioni politico-religiose che dividono la società israeliana dove ebrei ortodossi e di destra vivono gomito a gomito con pacifisti di sinistra. Ottimisticamente nel film l’attrazione sessuale supera tutto. La cosa che forse più sorprende in questo divertentissimo film è la varietà e l’audacia dei tipi sessuali rappresentati. Non ci si aspetterebbe una tale vivacità sessuale in un posto cosi martoriato dalla storia. Le lesbiche sono qui particolarmente vivaci e in un paio di episodi anche un po’ assatanate e violente (non ci sarà lo zampino dei registi gay ?). Troviamo anche un accoppiamento inedito, tra un drag king e un aitante gay.
“Gu huo” (Fire in Silence)
Erano tre i lungometraggi in concorso. Il primo, “Gu huo” (Fire in Silence), di un giovane regista cinese, Shen Weiwei, che lo ha girato appena 19enne. Naturalmente soffre di qualche ripetizione e segue uno stile didattico e un po’ teatrale, ma considerato che è un film cinese tutto sull’omosessualità e di un regista così giovane (e carino), merita considerazione.
Alla proiezione è presente il regista ora 21enne Shen Weiwei che ringrazia il festival e tutti i presenti. Shen Weiwei dice di aver fatto questo film anche perchè le persone che vivono in Cina potessero conoscere come vivono gli omosessuali e capire che la loro vita e il loro modo di essere è esattamente uguale a quello di tutti gli altri. Ha poi voluto spiegare il perchè di questo titolo: le persone sono come una fiamma che arde, quando si incontrano diventano come due fiamme unite, ma poi la vita e le circostanze li portano a cambiare idea. Spesso l’amore finisce e ognuno si ritrova come una fiamma solitaria. Questo film è stato fatto quando Shen Weiwei aveva diciannove anni. Sebbene alcune cose ora siano cambiate, egli ritiene ancora valido quanto ha voluto dire allora. Cosimo Santoro ricorda che: “questo non è un film supportato da una grossa produzione. Il progetto non ha mai avuto una vera genesi e il film è rimasto non montato in un mini-dv e non è stato visto se non in proiezioni private per diverso tempo. Tuttavia è sembrato giusto presentarlo a questo festival, per dargli visibilità e in quanto rappresenta al meglio la cinematografia queer della Cina, un Paese in cui ci sono seri problemi rispetto alle tematiche legate all’omosessualità, dove c’è un forte contrasto tra i grandi sforzi fatti nel tentativo di portarsi al livello delle società occidentali e una tradizione e una cultura che negano la libertà individuale. Il lavoro di Shen Weiwei si pone sulla scia di un vivaio di giovani registi cinesi che tentano e provano a fare cinema in una società che non dà spazio a queste tematiche.” Cosimo chiede al regista come è nato questo progetto e che sviluppi ha poi avuto. Quando Shen Weiwei aveva diciotto anni ha incontrato alcuni ragazzi omosessuali, poi diventati suoi amici, che gli hanno raccontato la loro situazione e quindi lui ha iniziato ad informarsi anche su internet sulle storie di omosessuali cinesi. All’inizio qualcuno ha cercato di scoraggiarlo, però il regista è rimasto determinato a voler raccontare questa storia anche se con pochi soldi. Per Cosimo il film , pur con un budget praticamente a zero e nonostante la giovane età del regista, ha in se riconoscibili diverse qualità, come l’utilizzo del montaggio, la fotografia e anche una certa intensità nel descrivere le personalità dei protagonisti secondo la tradizione del melodramma asiatico. Cosimo ha chiesto al regista se il film è stato visto in occasioni ufficiali in Cina e in altri Paesi. Shen Weiwei risponde che il film non è stato visto ufficialmente in Cina ma alcuni lo hanno potuto vedere su internet. All’estero il film è stato visto solo occasionalmente negli Stati Uniti. Uno spettatore chiede se è normale in Cina che un ragazzo di diciassette anni abbia una relazione di tre anni con un coetaneo, cosa non cosi diffusa in Italia. Shen Weiwei risponde che adesso in Cina i ragazzi omosessuali già a diciassette anni hanno diverse storie anche di lunga durata. Noi abbiamo chiesto se ancora oggi Shen Weiwei è cosi pessimista circa la possibilità di amare ed essere amati nello stesso tempo, o se invece si può sperare di vedere in futuro un suo film a lieto fine. Shen Weiwei risponde che effettivamente ha cambiato idea e spera che nel futuro le cose siano migliori e più felici. (R.M.)
LEONERA di Pablo Trapero
Il secondo lungometraggio in concorso è stato l’attesissimo (meritatamente) “Leonera” dell’argentino Pablo Trapero, finora l’unico film che colleziona ben tre 9 (e un 8½) sulla nostra pagella del Festival nella home page.
Julia si ritrova in carcere accusata dell’omicidio del fidanzato Nahuel. Non sappiamo esattamente come sono andate le cose, di sicuro si è trattato di una situazione esasperata facile alla perdita del controllo. Il film si svolge quasi tutto all’interno del carcere, in una zona con molte agevolazioni in quanto riservata alle donne gravide o con figli che vivono con loro formando una piccola comunità. Uno dei pregi principali e originale del film è proprio quello di farci entrare nella vita quotidiana di questo microcosmo femminile, dove l’amore e la solidarietà sono l’ancora di salvezza per ognuno. Anche la stessa relazione lesbica fra la protagonista Julia e la detenuta Marta assume un significato assai particolare: Julia non sembra affatto lesbica, quindi all’inizio forse accetta la storia con Marta un po’ per paura e un po’ per necessità, per avere qualcuno che la protegga. Col tempo però la storia si solidifica fino a diventare una profonda solidarietà, che sarà essenziale per la scelta finale della protagonista.
Il film ha un taglio realistico che riesce a coinvolgere empaticamente lo spettatore, sia nella vita sociale all’interno della particolare comunità carceraria che nella descrizione caratteriale dei protagonisti. (G.B.)
“Selda” di Paolo Villaluna e Ellen Ramos
Terzo lungometraggio in concorso della giornata, secondo sul tema delle carceri e primo film filippino dei cinque che vengono presentati in questa edizione del Festival (ben tre in concorso). Questa vitalità del cinema queer di un Paese del Far East è stata in parte spiegata dal regista nelle sue risposte al pubblico, ricordando che le Filippine sono state dominate per più di 400 anni dagli spagnoli, per 4 anni dai giapponesi e per vent’anni dagli americani, generando una vivacità e poliedricità culturale stimolanti per la creatività artistica. Rispondendo a Cosimo il regista Paolo Villaluna ha però detto che i film a tematica gay sono ancora di nicchia nelle Filippine, anche se vengono sovvenzionati dalle istituzioni pubbliche e molti autori, gay e non gay (vedi l’etero Brillante Mendoza del quale passa oggi al festival l’attesissimo “Serbis”) si cimentano con queste tematiche. Villaluna ha diretto questo film insieme alla sua fidanzata Ellen Ramos, con la quale si è accordato per la realizzazione di un lungometraggio ogni due anni circa. Villaluna ha voluto precisare di essere bisessuale e di avere informato della cosa anche la sua comprensiva fidanzata. Il film, come dichiarato da Villaluna, vuole essere una pesante denuncia contro il sistema carcerario filippino, qui preso a paradigma del “carcere”, ugualmente terribile, che molte persone si costruiscono intorno, rischiando di non vivere la propria vita, le proprie inclinazioni, i propri sentimenti, generando da vivi la propria morte e quella delle persone che le circondano. Questa metafora risulta evidente dalle drammatiche vicende raccontate dal film ed espresse chiaramente da uno dei protagonisti, Esteban, il compagno di cella di Rommel, che vuole fargli capire che c’è una violenza ancora peggiore di quella che può subire tra le sbarre, ed è quella che ci infliggiamo rinunciando a vivere la nostra vera vita. Rommel è un giovane omosessuale represso che sceglie di sposarsi ed avere dei figli, sacrificando anche il grande amore trovato in carcere. La sua storia diventa sempre più drammatica e tragica, seminando involontariamente morte e disperazione, proprio perchè, vuole dirci il regista, non è capace di rispettare la sua vera natura: è una persona che ha scelto di morire in vita, e la morte chiama morte.
A noi il film è piaciuto molto anche se la parte carceraria è abbastanza scontata e già vista, ma si riscatta molto bene quando tutta la storia diventa una parabola sulla paura e sull’omofobia interiore che distrugge più di qualsiasi violenza.
ALCUNI CORTOMETRAGGI (G.B.)
HEIKO di David Bonneville
La relazione tra un ricco settantenne ed il giovane Heiko, i cui tratti sadomasochistici e feticisti si spingono agli estremi nel macabro finale. (G.B.)
voto: 6 e 1/2
HER OWN WAY di Limor Ziv
Mika ed Hila, compagne di classe, devono passare il fine settimana insieme per un compito assegnatole. Si ritrovano dunque sole a casa di Mika, che fa molta fatica a nascondere il sentimento che prova nei confronti dell’amica. Una canzone che ascoltano insieme la convince a tentare un approccio… Questo cortometraggio è il frutto di un progetto scolastico di Limor Ziv, dell’università di Tel Aviv, che ci tiene a sottolineare che la città, dipinta nella collezione di corti “Fucking Different Tel Aviv”, è una sorta di paradiso, di “terra di mezzo” in Israele e in quanto tale non rappresenta il Paese per intero, piuttosto chiuso e repressivo. (G.B.)
JAMES di Connor Clements
Il quindicenne James, già abbastanza emarginato a scuola, si rende conto non solo di essere omosessuale, ma anche di essere maltollerato da suo padre e forse eccessivamente controllato dalla madre. Tenta in principio di reprimere le sue sensazioni, per poi decidere di confidarsi con un suo insegnante, Mr. Sutherland, la cui reazione però lo lascierà alquanto deluso. (G.B.)
voto: 7
LE FOSSOYEUR di Sylvie Benavides
Melanie, scopertasi innamorata di Tina, decide di separarsi dal marito Gabriel con il quale ha una figlia di 7 anni, Alice. L’uomo, geloso della nuova compagna, vede la sua vita sfuggirgli di mano, figlia compresa, così quando si vede recapitare a casa i documenti per il divorzio, in tutta risposta minaccia l’ex moglie e la sua compagna. Il corto ci lascia con la domanda: fino a che punto si spingerà Gabriel…? (G.B.)
voto: 6