ZEFFIRELLI SI RACCONTA

Stralciamo dalla rassegna stampa questa interessante intervista-confessione rilasciata dal regista Franco Zeffirelli a Barbara Romano del quotidiano Libero.

Confessioni – Franco Zeffirelli

BARBARA ROMANO

“La mia prima volta con un uomo mentre ero partigiano in montagna”

Il grande regista Zeffirelli racconta le sue esperienze amorose e dà ai politici i ruoli in un film: “Silvio sarebbe un inventore tipo Volta. Bossi come Robin Hood. Pecoraro? Per fortuna l’hanno mandato a casa”

C’è tutto l’armamentario neoclassico nella villa rinascimentale di Franco Zeffirelli sull’Appia antica. Foderata di arazzi mitologici e lastricata di mosaici su un pavimento disseminato di capitelli corinzi, anfore, ninfe marmoree e mozziconi di colonne. Sembra di essere alla corte dei Medici o nel Simposio di Platone, dove a Socrate, Alcibiade ed Aristofane lui ha sostituito il suo pantheon personale, incorniciato sul pianoforte a coda: Maria Callas, Luciano Pavarotti, Placido Domingo, Carla Fracci, Herbert von Karajan, Laurence Oliver, Anna Magnani, Giulietta Simionato, Stefania Bonfadelli… Ma è nel suo salottino lì- berty che si mette a discettare di politica, per poi lasciarsi andare ai ricordi degli amori giovanili. Svelando particolari che non compaiono nemmeno nella sua autobiografia, pubblicata da Mondadori.

Se lei avesse come cast i politici italiani che film girerebbe?

«Metterei su una compagnia di girovaghi intercambiabili: ognuno può fare tanti ruoli».

A Silvio Berlusconi che ruolo darebbe?

«Quello di un inventore: Alessandro Volta o Antonio Meucci. Berlusconi può essere l’uomo più bonario come il più astuto e crudele. E’ un personaggio di Pirandello o di Goldoni, versatile, vanitoso, pieno di sé. A me non è che il suo carattere piaccia in tutto».

Cosa non le piace del Cavaliere?

«Proprio quel quoziente di vanità, quel suo voler fare il simpatico ad ogni costo. Berlusconi ha un problema d’immagine pauroso, non vuole staccarsi dall’illusione della gioventù, come tutti noi del resto. Ha perso i capelli, e siccome non si possono mettere le parrucche come nel Settecento, continua a colorarsi il cranio con un risultato poco convincente».

Per quanto tempo rimarrà al potere?

«Lui ha il suo obiettivo e lo realizzerà: portare a termine la legislatura e diventare il presidente della Repubblica».

La sinistra glielo permetterà?

Se lui decide di arrivarci non lo ferma nessuno».

E chi prenderà il suo posto alla guida del Pdl?

«Sento tanto parlare di astri nascenti. Ma dove stanno?».

Gianfranco Fini No?

«E’ un eroe chic troppo buono per far carriera come leader. Fini è un personaggio anni Trenta, un professore animato da buoni spiriti polemici, molto forte nel difendere certi principi, ma condannato dall’ombra del fascismo che si porta dietro, nonostante le sue coraggiosissime prese di distanza dal passato. Cosa che nessun comunista ha fatto. Dedicano un viale lungo quattro chilometri e largo 200 metri a quell’assassino di Togliatti, complice di assassini, e non osano dare una strada alla Fallaci».

Non vede proprio nessun leader in nuce nel PdL?

«Daniele Capezzone è un giovane promettente».

Che ruolo darebbe a Walter Veltroni?

«L’azzeccagarbugli. Fa il bonario, ma è un personaggio estremamente pericoloso. A lui calza a pennello sia la veste del mafioso che quella del sacerdote educatore di giovani anime. Qualche anno fa l’avevo profetizzato come uomo del dopo Berlusconi, invece è stato una grande delusione».

MassimoD’Alema?

«Jago non mi dispiace, molto sottile. Più settecentesco, però. Forse, un Montesquieu…».

Umberto Bossi?

«Un non-eroe, un populista molto scontroso e irriverente nei confronti del potere, ma che fa del bene alla povera gente: Robin Hood».

Nella sua lunghissima carriera cinematografica con quali governi ha avuto più fortuna?

«Io dalla sinistra sono sempre stato osteggiato, se avessero potuto ammazzarmi l’avrebbero fatto volentieri».

E’ andata meglio con i governi Berlusconi?

«Non mi sono fidato molto neanche di loro, perché sono pur sempre gente di “compravendita”. Però, almeno non mi hanno osteggiato».

Il Cavaliere non le ha mai fatto favori?

«Non è che Berlusconi mi abbia mai fatto particolari favoritismi, però mi ha dato dei riconoscimenti straordinari Mi ha avvantaggiato la sua politica del “volemose bene” con la Russia di Putin, dove io ero già piazzato molto bene con i miei film, soprattutto dopo la caduta del Soviet».

Il premier che l’ha osteggiata di più?

«Bettino Craxi, mi pare».

E’ vero che la cultura in Italia è in mano alla sinistra,
come dice Berliusconi?

«Sì, perché gli artisti sono dei vigliacchi, sono sempre stati con i potenti. E hanno coltivato questa massoneria per cui “o sei con noi o sei contro di noi”, di cui io sono l’esempio più luminoso di resistenza».

Nientemeno.

«Negli anni d’oro del cinema italiano, il 92% dei registi era iscritto al Pci e io ero fuori perché non mi piacevano i comunisti».

E come ha fatto a essere l’unicoo regista italiano che è approdato al Metropolitan?

«Ho fatto il mio dovere, sono stato partigiano, sono fiorentino e porto dentro il genio della manualità, ho studiato inglese da bambino con la mitica signorina Mary O’Neill e ho sempre guardato all’Inghilterra come al faro della cultura. Il merito alla fine vince. Il mio talento è uscito rafforzato dall’ostracismo».

Avendo combattuto con i partigiani, che idea si è fatto della resistenza?

«Di grande opportunismo. Giorgio la Pira ce lo diceva sempre: “Ragazzi, andate con i partigiani in montagna perché non avete altra scelta, ma ricordatevi sempre che fascismo e comunismo sono la stessa cosa”. C’erano tanti bravi giovani tra loro, ma c’erano anche quelli politicizzati che ogni giorno ci facevano un’ora di mistica comunista, come i fascisti che a scuola ci catechizzavano sul mito del Duce».

Il politico italiano che oggi le piace di più?

«Giulio Tremonti. E una persona saggia, per bene, che non ha paura di diventare impopolare. E uno dei pochi politici che credo non si possano corrompere in alcun modo».

A quale personaggio teatrale lo associa?

«Allo zio Vania di Cechov».

Il politico che le piace meno?

«Molti per fortuna li hanno buttati fuori alle ultime elezioni, come Pecoraro Scanio».

Lei è stato senatore di Forza ltalla. Non le èvenuta voglia di ridiscendere in campo?

«No».

Non gliel’ha proposto Berlusconi?

«Si. Ha insistito, anche. Ma non è conciliabile con la mia vita. Gli ho detto: ci vuole carne fresca».

Che le pare di questo governo?

Mi piacciono molto le ministre, sono tutte belle, fanno parte della civetteria di Berlusconi. Mi piacerebbe fare un film su di loro, una commedia divertente a cavallo tra il pubblico e il privato».

Che attrici sceglierebbe?

«E dove sono le attrici? Un tempo … ».

Non ci sono bravi attori oggi in Italia?

«Ce ne sono tanti che fanno bene il proprio lavoro ma ormai nel cinema italiano c’è il nulla”.

E nel resto del mondo?

«Idem. Brad Pitt, Leonardo Di Caprio star? Anche nella musica leggera, dove sta una Mina o una Barbara Streisand? Lo starrismo si è inflazionato, tutte sono più o meno belle, intelligenti, scopano bene, ma nessuna ha il “morso” della Callas».

Ci sarà almeno qualche bravo regista…

«Non come un tempo. I solii che si salvano sono quelli che vengono dall’Oriente, come il taiwanese Ang Lee, il regista de “I segreti di Brokeback Mountain”. I nostri grandi registi finiscono con Bemardo Bertolucci».

Oggi le attrici, per ottenere una parte, fanno alzare il telefono dai politici. Anche ai suoi tempi era così?

«Oh sì, i politici democristiani e soci spingevano molto le attrici. Alida Valli aveva avuto ma storia con il figlio del ministro degli Esteri, Attilio Piccioni, ma sarebbe arrivata comunque. Per quelle brave le spinte non erano necessarie. Come Anna Magnani, cui fu rubata la parte della Ciociara, il romanzo che Moravia aveva scritto per lei, per potenziare la Loren».

Sta dicendo che Sofia Loren era raccomandata?

«Direi proprio di sì, era imparentatabene».

La “Buonanima” era morto da quel dì…

«Se lei crede che il fascismo sia finito con la morte di Mussolini, è un’illusa. Come il comunismo: sono malattie che la gente conserva perché fa comodo averle».

Quando ha capito che il teatro e il cinema erano la sua strada?

«A sei, sette anni, quando mi addormentavo davanti al camino in braccio alla mia balia, Ersilia Innocenti, e mi raccontava le favole. E d’estate, quando vedevo i pagliacci ambulanti che giravano a fare i loro numeri da una casa all’altra a Borselli, un paesino vicino a Firenze: c’era lo zoppo, il buffo, il cattivo, il furbo. Quello fu il primo teatro che conobbi e mi affascinava moltissimo. Poi, quando zia Lide e zio Gustavo mi portarono ad assistere alla Valchiria, fui rapito dalla dimensione del suono. Non dormii per giorni pensando al miracolo che mi si era aperto davanti agli occhi. Ma fu nel 1945, quando a Firenze assistetti alla proiezione dell’Enrico V di Laurence Oliver, che appena si riaccesero le luci capii che il teatro e il cinema sarebbero stati il mio futuro».

Lei è figlio illegegittimo di un padre che l’ha riconosciuto solo in tarda età e di una madre che ha perso a sei anni. Che ricordo ha di loro?

«I miei genitori erano entrambi sposati quando iniziarono la loro relazione. Ricordo una scena da melodramma quando mia madre mi tirò giù dal letto e mi trascinò con sé nel freddo dì quella notte tenendomi stretta nella sua pelliccia mentre andava ad aspettare mio padre fuori dal club dove lui si rintanava a giocare a carte dopo essere stato con la sua amante. Lei lo sapeva, e durante la lite si levò lo spillone che teneva il grande cappello per colpirlo al cuore, mentre io piangevo disperato. Successe il putiferio, arrivò il questore. Mio padre, divorato dai sensi colpa, non sporse denuncia. Ma la polizia le ingiunse di allontanarsi per un po’. Mio padre, Dio l’abbia in gloria, fece soffrire molte donne oltre mia madre…».

Subì altri traumi da ragazzino?

«Non un trauma, ma un’esperienza particolare che vissi da adolescente. Un giorno, mentre guardavo i miei amici giocare da una finestra del chiostro di San Marco, un frate cui ero molto affezionato si mise a guardare dietro di me circondandomi con un braccio. Sentii il suo corpo premere contro il mio. Non mi resi subito conto di cosa stava facendo, ma percepii che gli succedeva qualcosa. Poi lo vidi correre piangendo verso l’inginocchiatoio. Più che quello che aveva fatto, mi colpì il dolore di questo frate, che era un carissimo uomo, ci teneva compagnia, faceva sport con noi, ci portava ai musei. Capii quanto doveva aver sofferto, come doveva aver pagato cari i suoi voti di castità».

Non crede di essere stato vittima di pedofilia?

«No, parlerei piuttosto di omofilia. Nom mi risulta che nessuno che sia diventato omosessuale abbia cominciato con un prete. Succede più tra compagni di esplorarsi nell’intimità».

A lei è successo da ragazzo?

«Eccome. Organizzavamo spedizioni di gruppo in campagna con le biciclette; ogni tanto ci fermavamo a fare merenda e poi per ridere ci masturbavamo a vicenda. Gareggiavamo a chi ce l’aveva più grosso, a chi aveva più pelo, a chi arrivava più lontano con lo schizzo. Quelli più intraprendenti prendevano il ragazzino più debole e lo mettevano sotto. Era un mondo un po’ animale. Dopo, in adolescenza sono venute le grandi passioni. Non si ama mai come a quell’età».

Il suo primo amore?

«Carmelo Bordone, mio compagno di classe al liceo artistico. Eravamo innamorati anche se non lo sapevamo. 0 non volevamo ammetterlo».

Siete mal riusciti a confessarvelo?

«Dopo, da adulti. Lui mi raccomandò il figlio, che è diventato uno scenografo famoso. Mi disse.”Spero che con te lui abbia più fortuna di quanta ne ho avuta io, visto che tra noi non è mai successo niente”. Ho avuto un’adolescenza piuttosto scarsa di sesso».

La sua prima volta?

«Oh, molto tardi, durante la guerra, quando ero asserragliato con i partigiani sulle montagne di Firenze. Successe con un contadinotto che si chiamava Vieri ed era nascosto in quei boschi. Dormimmo in una notte di gelo avvolti in una coperta dentro una grotta, e avvenne quel contatto». Che ricordo ne conserva? «La ricordo come un’esperienza bella, perché eravamo talmente giovani… Ci attaccammo l’uno all’altro mentre il pericolo incombeva da tutte le parti. Intorno a noi c’erano i tedeschi che c’impiccavano se ci, beccavano».

Lei si è dichiarato omosessuale ma ha detto di odiare visceralmente la parola “gay”. Che differenza c’è?

«Il gay è un pagliaccio, un tipo buffo che fa finta di esser donna, i borghesi americani ci ridevano su. Essere omosessuale non è uno scherzo, vuol dire aver fatto una scelta matura, difficile, che va sostenuta con una dose di moralità maggiore di quella richiesta agli eterosessuali. Un uomo sposato può fare la corte a centomila donne e non c’èniente di male, anzi, aumenta i suoi trofei di guerra. Per un omosessuale non è così, a meno che non faccia il frocio».

Quando ha cominciato a percepire la sua omosessualità?

«A 14-15 anni. Non l’ho sentito come un movimento sessuale dentro di me. Era l’esaltazione che ti prendeva dal fondo dell’anima per un amico. Ti innamoravi e non sapevi dar forma a questo sentimento».

In famiglia come presero la sua storia con Luchino Vìsconti?

«Mio padre non sapeva niente, per lui esistevano le donne e basta. Due uomini per lui insieme potevano solo giocare a calcio. A qualche amico che tentò di mettergli la pulce nell’orecchio dicendogli “a Visconti piacciono i ragazzi”, lui rispondeva: “E allora? Che potranno mai fare di male? Sarebbe più preoccupante se Franco fosse una ragazza”».

Non aveva capito che c’era una storia tra di voi?

«No, anzi, era orgoglioso di quella che lui pensava fosse una semplice amicizia, “Il fatto che questo nobile milanese abbia mostrato interesse per il mio ragazzo”, diceva, “vuol dire che è intelligente, merita. Bisogna essere grati al conte”. E gli faceva dei regali incredibili. Gli fece ricamare un fantastico servizio di tovaglie fiorentine per ringraziarlo del bene che mi faceva».

Non capì neanche dopo?

«No, anche perché non ne abbiamo mai parlato. Zia Lide, invece, furbissima, aveva capito eccome. E si di vertiva un sacco. Una volta mi disse: “Porta quanti ragazzi vuoi a casa, ma le donne no, perché rompono le scatole, non lavano i piatti e lasciano in disordine”».

Era più contenta che lei fosse omosessuale?

«Lei era grande amica dei miei amici checche, mentre zio Gustavo volava alto, faceva finta di niente».

Cosa ricorda della sua relazione con Visconti?

«Era un rapporto rinascimentale, tra allievo e maestro, che noi a Firenze abbiamo respirato fin dall’infanzia. Era frequente che ci fossero rapporti tra adulti e giovani Se pensiamo a Michelangelo, Leonardo … ».

Ma lei era innamorato di Luchino?

«Ero profondamente colpito. Mi piaceva tutto di lui, anche le cose negative. Lo osservavo con molto interesse. E poi scoprivo le sue debolezze, le insufficienze professionali. In certe cose ero molto più avanti io, anche se devo a lui l’allargamento dei miei orizzzonti Aveva una biblioteca immensa che è stata la base della mia formazione culturale. Ma amore non direi. L’amore è una cosa un po’ “sghemba”».

La più grande “cosa sghemba della sua vita?

«Ma che curiosa!».

Allora?

“L’amore più grande sono i miei cani».

Delle sue attrici oltre la Callas quale ha amato di più?

«lo sono stato innamorato di tutte le mie attrici».

E gli attori?

«Con gli uomini l’amicizia non è mai potuta diventare troppo affettuosa, per il sospetto sempre latente di omosessualità. Due li ho proprio detestati: Mel Gibson e William Hurt. Brutti personaggi”.

Qual è il suo film cui è più affezionato?

«”Storia di una capinera” è è un film che mi ha straziato il cuore perché sapevo che non sarebbe riuscito, avevo sbagliato il personaggio».

Ha un film nel cassetto?

«”Fiorentini” su Michelangelo e Leonardo. E’ trent’anni che l’ho scritto. E’ ancora lì, ho anche il finale. Ma ormai non ce la faccio più».

Barbara Romano

Dal quotidiano Libero del 2/1/2009

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