SEX AND THE CITY
Abbiamo visto “Sex and the City”, il film, che purtroppo ci ha lasciato alquanto delusi, anche se, coma fan della serie, abbiamo avuto ancora una volta la possibilità di passare più di due ore con le nostre amate eroine, rilassati (fin troppo) su una comoda poltrona della nostra sala cinematografica preferita.
Il fatto è che ci aspettavamo qualcosa di nuovo, di eccitante, non fosse altro per sottolineare la differenza tra televisione, quasi per definizione morigerata e pudica, e cinema, dove tutto è possibile. Sarebbe stata l’occasione ideale per le nostre emancipate ragazze di dare libero sfogo alla loro creatività e libertà. Senza pretendere nulla di rivoluzionario, naturalmente, solo per vederle proseguire sulla via della loro completa e sincera realizzazione, lontano da pregiudizi e falsi moralismi. Invece ci siamo trovati davanti a un film quasi senza storia, o peggio, con una banalissima e visitatissima storia di un matrimonio impossibile. Nulla di più, eppure il film dura più di due ore, salvo l’insistenza sul tema delle griffe (sfilata di moda compresa), un paio si scene di nudo maschile (tipo Playgirl), e l’inserimento di un nuovo personaggio, Jennifer Hudson (la bravissima interprete di Dreamgirls), in rappresentanza delle classi povere.
I due personaggi gay della serie, Anthony e Stanford, compaiono solo come macchiette stereotipate (due superchecche) e con battute prive di significato. L’unica cosa nuova in merito è che li ritroviamo amici (mentre nella serie si detestavano) e forse addiritura qualcosa di più, visto il fuggevole bacio sulla bocca che si scambiano. L’unica scena che ci ha un po’ stupiti è l’omaggio che la regia ha voluto fare all’attrice Cynthia Nixon, lesbica dichiarata e in procinto di sposare la sua compagna Christine Marinoni, nella scena in cui la vediamo, la notte di capodanno, al tavolo di un ristorante in compagnia di Carrie (Sarah Jessica Parker) e un’inserviente si rivolge loro, molto educatamente, come fossero una felice coppia lesbica.
Forse, nell’intenzione degli sceneggiatori, vorrebbe essere rivoluzionaria la scelta che Kim Cattrall (Samatha Jones), la divoratrice di uomini, compie alla fine del film, poco prima di festeggiare i suoi 50 anni, che a noi è invece solo sembrata poco credibile.
Anche quello che sembra il motivo conduttore del film e forse l’unica idea che trasmette, cioè la necessità del perdono nella vita sentimentale e relazionale, risulta alla fine banale e scontato. Carrie ci fa aspettare per buona (troppa) parte del film il suo perdono verso Mr.Big (che continua ad assomigliare più ad un fantoccio che ad un uomo, e il suo “colpo di scena” da ragazzino incosciente ne annulla completamente l’intelligenza); la nostra Miranda prende al volo la prima scusa valida per abbandonare il marito e anch’essa impegherà poi tutto il film per capire che deve perdonarlo (l’alternativa era diventare lesbica anche nel film, cosa che ne impedirebbe probabilmente un sequel); con risalto assai minore abbiamo già detto che anche Anthony e Stanford si sono perdonati in quanto li vediamo amici e quasi complici, e alla fine vediamo che anche il bellissimo marito di Samantha, Smith (Jason Lewis), è pronto a perdonarle una scelta che ai nostri occhi rimane imperdonabile.
Come vedete il messaggio del film è quasi “parrocchiale”, tutt’altro che rivoluzionario, probabilmente giustificato, oltre che dalle esigenze di botteghino (il pubblico del film è in gran parte ancora quello televisivo) anche dall’avanzata età delle protagoniste, ormai vicine ai cinquanta e bisognose più di calma e serenità che di eccitazioni e trasgressioni. Ma a questo punto il sesso e la città cosa centrano?
ALL’AMORE ASSENTE
Tutt’altro discorso per l’altra prima visione che abbiamo visto, “All’amore assente” di Andrea Adriatico. Diciamo subito che è un film per cinefili, che piacerà molto a chi ha amato il cinema di Antonioni, a chi ama il tema del doppio, dell’indagine psicologica, della ricerca interiore.
A noi ha ricordato anche un film di Pasolini che abbiamo molto amato, Teorema, dove un personaggio misterioso (quasi un angelo) veniva a sconvolgere la vita di una famiglia rivelando a ciscuno la sua vera identità e il suo essere più intimo e segreto. Qui abbiamo un investigatore privato, intrepretato dal bravo Massimo Poggi, che lentamente prende il posto, sia nel lavoro che nella vita privata, di un ghost writer (scrittore dei discorsi che i politici fanno in pubblico), Andres, da poco scomparso. Non sappiamo chi lo manda o per chi lavori, non sappiamo perchè lo faccia o che cosa intenda scoprire.
Gran parte del film è sorretta da queste domande e solo dopo un po’ di tempo comprendiamo che sono domande sbagliate, che il soggetto della storia non è la persona scomparsa ma quelli che sono rimasti: la madre malata (interpretata dalla sempre stupefacente Milena Vukotic) che viene rimandata a casa dall’ospedale perchè ritenuta in fin di vita; la moglie dello scomparso, Iris (una sensuale Francesca D’Aloja), incerta sui suoi amori (lavoro, marito, amante, figlio in arrivo); il collega e amico Edoardo (Maurizio Patella), gay innamorato di Andres; il padre (Tonino Valeri) che manda dal giardino segnali agli ufo che crede gli abbiano rapito il figlio (probabilmente da sempre così lontano).
Tutti questi personaggi verranno messi di fronte alle loro responsabilità o necessità dall’incontro con l’investigatore, che in un modo o nell’altro riuscirà a liberarli dai loro fantasmi. Edoardo sarà riuscito a possedere l’amore e il corpo di Andres/investigatore per capire che in realtà non può amarlo. La moglie Iris ritroverà l’amore per il marito e quindi per il figlio che sta per nascere. I genitori potranno uscire dalla loro sofferenza e ritrovare il calore di una famiglia.
Altro tema affrontato dal film è quello dell’ambiguità della politica, della sua incongruenza, della sua falsa vicinanza alle persone. Da qui la scelta del ghost writer che scrive i discorsi per un’altro ma che non sono nemmeno suoi (sono copiati da poesie di Whitman) e che ad un certo punto non potrà fare altro che scomparire, salvo ritornare nei panni dell’investigatore/risolutore. Questa tematica, quella politica, è forse la parte più debole del film, sia perchè lo sovraccarica sia perchè non riesce a definirsi in una storia ragionata, che vada oltre l’immagine del comizio/poesia davanti a degli ombrelli aperti che nascondono un pubblico depersonalizzato.
Qui sotto la locandina del film di Andrea Adriatico