Grande Delia Vaccarello, militante lesbica, scrittrice e giornalista, da sempre un nostro mito. Ieri ha presentato alla Fnac di Torino, in collaborazione col Togay 2007, la sua ultima, originale, fatica letteraria, dal titolo “Sciò – Giovani, bugie, identità” (Oscar Mondadori), avventure di giovani alla scoperta della loro sessualità, dei primi incontri, dei primi amori, ecc. Oggi dedica tutta la pagina di “Liberi tutti” sull’Unità al Festival Gay Lesbico di Torino. La potete leggere nella nostra rassegna stampa.
Siamo al giro di boa del Festival e anche i film presentati nella quinta giornata ci fanno riscrivere in parte la nostra classifica dei probabili vincitori. Ci riferiamo in particolare al film “Tuli” di Auraeus Solito per i lungometraggi (che però essendo il vincitore dello scorso anno, parte un po’ svantaggiato) e al documentario “Paper Dolls” che ha letteralmente incantato tutti.
Ma partiamo dalle proiezioni pomeridiane.
“Electroshock” di Juan Carlos Claver racconta, con uno stile lineare (un po’ televisivo), una incredibile storia, realmente avvenuta nella Spagna franchista (1972), di persecuzione omofobica verso due donne insegnanti che vogliono vivere insieme la loro storia d’amore. Allucinanti le scene in cui la “scienza” psichiatrica di quegli anni tenta di “guarire” l’omosessualità con le scariche elettriche, causando un danno irriversibile nel corpo e nella mente della poveretta. Il film, oltre a documentare i fatti fino al processo conclusivo, con inaspettati colpi di scena finali, ci fa rivivere una grande e struggente storia d’amore lesbico.
Presentato anche il nuovo film di Philippe Vallois, “Sexus Dei”, girato nel 2006 e assai differente, sia nella tecnica che nel contenuto, dai suoi film precedenti, pur restando essenzialmente anch’esso un film autobiografico. I protagonisti del film sono infatti lo stesso regista e il suo compagno, mentre la terza protagonista, ex amante del suo compagno ed ora loro amica, è invece stata sostituita con una vera attrice perchè non desiderava apparire (così ha detto il regista presente in sala). Il film si presenta con uno stile quasi documentaristico per raccontarci il dolore della perdita del compagno (e degli amici per Aids) del protagonista che intraprende un viaggio nella Beirut distrutta del 1994, poi l’incontro, in una chiesa abbandonata nel cuore della Francia, con un uomo che vive con la sua donna ma che presto abbandonerà scoprendo con lui l’amore ed il sesso omosessuale. Il film è assai originale, con diversi momenti surrealisti (il regista ha detto che la sua mente è surrealista), con incantevoli scenografie della natura e degli ambienti visitati; mostra spesso una sessualità gioiosa e naturale (dice Vallois per desacralizzarla e ridargli il suo reale valore), e utilizza (forse con troppa insistenza) la simbologia religiosa (dice Vallois che è affascinato dal suo aspetto poetico). Complessivamente un viaggio curioso e affascinante anche per lo spettatore. Molto apprezzabile il tentativo del regista, perfettamente riuscito, di rinnovarsi nello stile e nel linguaggio filmico.
Il pomeriggio è terminato con il successo strepitoso del documentario “L’Eletta” di Camilla Paternò e Marco Basilè, che ha visto la sala gremitissima fin sugli scalini dei corridoi, e che ha ricevuto continui applausi anche a scena aperta. Non possiamo immaginare cosa sarebbe successo se fosse stata presente (come promesso) la protagonista Vladimir Luxuria della quale il film racconta la dinamica e intensa vicenda personale e politica.
Per noi, come dicevamo sopra, il film clou della giornata è stato senz’altro “Tuli” di Auraeus Solito, che però non ha invece convinto parte del pubblico. Peccato, perchè a nostro giudizio è addirittura superiore al suo precedente pluripremiato (anche qui a Torino lo scorso anno) “Maximo Oliveros”. Ambientato in un isolato villaggio delle Filippine, dove nemmeno esiste la tv, il regista riesce a farci partecipi della vita, dei costumi, dei sentimenti e dei drammi di questa piccola comunità, che vive in uno splendido paradiso naturale, guidata dalla tradizione e da una religione che mescola cattolicesimo, riti e rappresentazioni medievali, magia, sensualità, ecc. Quasi incredibile il coraggio della protagonista, che sente il bisogno del cambiamento e decide di ribellarsi (“noi donne non possiamo vivere la nostra vita intorno ai testicoli degli uomini”). Si metterà a vivere con la ragazza che ama, decideranno di avere un figlio aiutate da un altro giovane ribelle, e tutti e tre uniti, affronteranno la collera dell’intero villaggio. Siamo certamente davanti ad una fiaba (come sembra volerci dire lo stesso regista usando dei meravigliosi colori pastello e utilizzando incantevoli scenografie floreali) che, come tutte le fiabe, vuole indicarci nuovi e migliori orizzonti. Incantevole.
Il film spiazzante della giornata è stato invece “Fu Ge” di Cui Zi’en, membro della Giuria del festival e al quale la mostra dedica un breve omaggio. Nella breve presentazione prima del film il regista, dopo essersi complimentato col festival gay di Torino ed avere sottolineato di non sapere quanti decenni dovranno ancora passare prima di avere una cosa simile in Cina, ha detto che quando ha presentato questo film (forse il suo preferito) al festival di Locarno, molti spettatori sono usciti dalla sala già dopo i primi minuti di proiezione, mentre al festival di Busan (importante festival internazionale coreano) nessuno ha mai abbandonato la sala. Questo film è uno di quelli che o si amano o si odiano, anche se siete accaniti cinefili. Per darvi un’idea del film posso farvi ricordare la lunga scena del pianto finale della protagonista di “Vive l’amour” di Tsai Ming-Liang: la stessa immagine fissa per più di sei minuti. La stessa tecnica viene usata da Cui Zi’en in quasi tutti i 13 quadri che compongono questo film. Ci troviamo così di fronte ad una ipotetica galleria di splendidi quadri “mobili” in lentissima successione che possono ammaliarvi e incatenarvi alla sedia (come nel mio caso) o innervosirvi e farvi uscire dalla sala. Per la cronaca, ieri pochissime persone hanno abbandonato il film. I motivi del fascino del film sono comunque diversi, a partire dagli splendidi protagonisti (quasi sempre completamente nudi) ma soprattutto bravissimi; dalla plastica e pittorica costruzione delle scene, sempre focalizzate sui corpi e le posizioni degli attori inseriti, per contrasto, in una scenografia semplice e minima; dalla storia raccontata, anch’essa semplice ma ricca di significati. I protagonisti sono due fratelli, il maggiore ammalato di aids e il minore, ritardato mentale, cresciuto e accudito dal fratello. Entrambi si amano, anche sessualmente e vivono praticamente in simbiosi. Il maggiore si sente vicino alla morte e ha paura di cosa potrebbe accadere al minore una volta che si ritrovasse solo. Il film è quasi muto e le poche ma pregnanti frasi che vengono pronunciate sono spesso ripetute (“chi mangia un fiore diventa un fiore”) come fossero la colonna musicale del film. Ci ha lasciati un po’ stupiti, pensando ad un regista cinese ed attivista del movimento gay, l’allegoria religiosa cattolica delle ultime scene. Più che un film un’esaltazione visionaria indimenticabile (naturalmente solo per chi decide di rimanere in sala).
Oggi abbiamo visto anche l’interessantissimo film documentario in concorso “Bubot Niyvar” dell’israeliano Tomer Heymann, che, secondo molti degli spettatori presenti è senz’altro il più bello visto sino ad ora. Il film ci presenta alcuni momenti della vita delle Paper Dolls, un gruppo di transessuali filippini che si esibiscono come drag queens il sabato sera in un locale di Tel Aviv. Attraverso la loro esperienza impariamo a conoscere la condizione degli immigrati in Israele, la loro difficile vita quotidiana, e il lungo e faticoso percorso interiore per collocarsi in una società che le discrimina doppiamente, sia come straniere che come transessuali. Nonostante il loro importante contributo, che le vede ogni giorno impegnate come infermiere badanti per anziani ebrei ortodossi, tra ronde anti immigrazione della polizia e attentati terroristici, saranno costrette a trasferirsi in Europa o a tornare nel loro Paese d’origine, le Filippine. Il regista, presente alla proiezione, ha detto di avere avuto l’intuizione di questo film mentre assisteva ad una ennesima esplosione in locale di Tel Aviv. Il film vuole, secondo le parole del regista, rappresentare la situazione più dal punto di vista degli immigrati che non degli israeliani stessi, specificando che: “tutti i lavoratori immigrati oggi vivono in Israele come ombre che camminano per strada senza identità. Da quando ho personalmemnte conosciuto le Paper Dolls mi si è aperto un mondo nuovo e diverso. Avrei voluto portarle con me in giro per il mondo per farvele conoscere, ma è stata solo una questione di soldi non poterlo fare”.
Molti spettatori anche per la proiezione in seconda serata di “Chacun sa nuit” di Jean-Marc Barr e Pascal Arnold, un thriller psicologico, tratto da una storia vera, che, probabilmente per un finale molto aperto, non ha ricevuto nessun applauso dal pubblico. Il film vuole indagare le relazioni sentimentali e sessuali di un gruppo di amici il cui equilibrio viene rimesso in discussione dalla misteriosa morte di uno di loro. Durante il film scopriamo che la vittima, il bellissimo e magnetico Pier, era in realtà l’oggetto del desiderio di tutti gli amici, della propria sorella, e di alcuni maturi benestanti del paese che lo pagavano per orge sessuali. Film scorrevole e accattivante che, a nostro giudizio, non approfondisce sufficentemente le motivazioni psicologiche di alcuni personaggi.
IMMAGINI DELLA GIORNATA
Giovanni Minerba, Camilla Paternò ("L’Eletta")
|
G. Minerba, Tomer Heymann ("Paper Dolls"), Ricke Merighi
|
David Tibet (musicista "Tuli")
|
Philippe Vallois
|
Philippe Vallois, Christophe Tuaillon
|
Davide Oberto, Philippe Vallois, Christophe Tuaillon
|
Cui Zi’en ("Fu Ge")
|
Cosimo Santoro, Cui Zi’en
|