Domani si chiude la Berlinale 2007 e in attesa dei vari premi, Teddy compresi, facciamo un breve bilancio dell’accoglienza riservata ai principali titoli Lgbt presentati.
Cominciamo con la sorpresa (in quanto inaspettata, anche se sospettata), dal nostro punto di vista, cioè l’unico film italiano in concorso nella sezione principale, che ha fatto discutere proprio per i riferimenti gay contenuti. Stiamo parlando di “In memoria di me” di Saverio Costanzo, un film accolto male dai critici tedeschi , ma bene da altri critici stranieri ed italiani. Un’opera che ha un po’ spiazzato tutti, anche perchè assai diversa dall’opera prima di Costanzo, almeno nella tematica, che da politica è diventata religiosa. Anche se Costanzo ha precisato in tutte le interviste di non essere credente ma solo interessato ai labirinti della mente umana. In alcune recensioni si dice addirittura che l’ambientazione nel monastero, coi suoi silenziosi corridoi animati da sguardi interroganti, fa pensare più ad un club gay che a un istituto religioso. Il tema dell’omosessualità emerge chiaramente da tutto il film, anche se non viene mai affrontato direttamente, salvo che nella scena del famoso bacio. La struttura del film si offre ad una intensa e ammaliante contemplazione e nello stesso tempo invita a interessanti riflessioni. Riportiamo alcuni giudizi della stampa.
“Dio mio, Dio mio! E detto questo si è detto tutto sul film italiano in concorso, così noioso che parecchi critici ne hanno approfittato per fare una pennichella… gli attori hanno un’espressione drammatica come le vacche che dopo una lunga pausa invernale non sanno da che parte cominciare con la riacquistata libertà di pascolo” (Berliner Zeitung)
“Ah, se la regia di Costanzo avesse taciuto come i monaci dell’isola di Venezia!” (Die Welt)
“Il peggior film in concorso è sempre quello italiano… Kosslick [il direttore del festival, ndr] porta al Festival berlinese quei film che non trovano asilo da nessun’altra parte” (Der Spiegel)
“I film italiani non sono mai così bizantini come quando parlano della religione cattolica. Non fa eccezione In memoria di me che fa irruzione sullo
schermo con potente originalità e una certa profondità di pensiero in una atmosfera non priva di tensione e coinvolgente” (Variety)
“Ottima la regia e spettacolari le location dell’Isola di San Giorgio Maggiore… il giovane Costanzo accetta la sfida piuttosto ardua di un dramma che si dipana esclusivamente nella testa del protagonista e spesso nel silenzio” (The Hollywood Reporter)
“Una scelta coraggiosa. Con il suo film In memoria di me, Saverio Costanzo ha portato a Berlino una ventata di spiritualità religiosa inconsueta per un festival altrimenti noto per i suoi film politici, per il chiasso delle sue trasgressioni e per una generale laicità” (Il Messaggero, Walter Rauhe)
“Scommessa stilistica che si innesta per contrasto al rigore narrativo di un film coraggioso, proteso com’è nella difficile sfida di riuscire a rappresentare quella linea di tangenza che unisce i movimenti interiori agli ambienti esterni.” (L’Unità)
“Rarefatto e misterioso come i silenziosi ambienti del convento sull’isola di San Giorgio, a Venezia, dove è stato girato, il film mette in scena i grandi interrogativi della religione cristiana attraverso lo scontro di alcuni personaggi simbolo… Costanzo usa i silenzi, le architetture, gli sguardi, le regole di vita per rendere palpabile la tensione che ogni novizio porta dentro di sé, più preoccupato di farci condividere un’atmosfera che non di parteggiare per questo o per quello. Dimostrando così di aver raggiunto una maturità espressiva e una padronanza narrativa di prim’ordine.” (Corriere della Sera, Paolo Mereghetti)
“Due le impressioni che il film lascia. Tra quelle austere mura c´è un campo di addestramento che ha la missione di formare truppe scelte. La misericordia testimoniata dal sacrificio di Gesù abita in mezzo all´incertezza e tra i compromessi della vita che pulsa fuori. Con tutto l´esasperante rituale del percorrere in su e in giù infiniti corridoi e con tutta la verbosità concettosa dei dialoghi, davvero questo è, come dice Costanzo, «un thriller spirituale-metafisico».” (La Repubblica, Paolo D’Agostini)
“La notevole coerenza stilistica di Costanzo consiste nel fare un film che somiglia a ciò che vuole rappresentare: dettagli, silenzi, sfumature ma anche dubbi e crisi che favoriscono una sincera e totale riflessione interiore, senza dare risposte o prendere alcuna delle parti in causa.” (Il Tirreno, Massimo Sebastiani)
“… Certo il film è affascinante e suggestivo, misterioso e un po’ difficile, «fa scoppiare la testa del pubblico pagante», scrive Variety. I duelli ci sono, ma sono a base di interpretazioni del Vangelo così sofisticate da suonar eretiche, ma non lo sono; i momenti di tensione horror non mancano, ma tutt’altro che superficiali e effettistici. Costanzo sprigiona dalle immagini una forza «diabolica» che è raddoppiata da un cast di concentrazione inusuale” (Il Manifesto, Roberto Silvestri)
Un’altro titolo, questa volta fuori concorso, che ha fatto parlare molto è “Diario di uno scandalo” di Richard Eyre (regista al suo terzo film gay dopo i recenti “Iris” e “Stage Beauty”). Alcuni hanno addirittura detto che se fosse stato in concorso avrebbe vinto l’Orso d’Oro senza ombra di dubbio. Il film esce nelle nostre sale il 23 febbraio prossimo.
“Richard Eyre traspone, come meglio non si potrebbe, l’omonimo romanzo di Zoe Heller, in cui la sottile morbosità dell’attrazione lesbica e l’inquietante sottomotivo del plagio si traducono in una narrazione lineare e sicura e immagini di preziosa densità espressiva… quando Barbara sorprende la giovane collega mentre sta facendo l’amore con un allievo quindicenne, si convince di possedere un insperato e ricattatorio strumento di dominio. Il duello psicologico che segue è da applausi a scena aperta, nel segno del più affidabile ed eloquente cinema inglese.” (Il Mattino, v.ca.)
“… una sceneggiatura tagliente e millimetrica riesce a muovere le pedine di due donne lungo le spire di un duello psicologico capace di passare dalla solidarietà alla repulsione, dalle confidenze alle ritorsioni. Il tutto, intorno al torbido caso di cronaca in cui l’invadente e infatuata Dench scopre il sesso clandestino della giovane collega con uno studente di quindici anni. Così, aggrovigliandosi in un mulinello morboso che scatena stampa scandalistica, indignazioni scolastiche e procedure penali, le fragilità differenti delle due signore manipoleranno un tragitto speculare capace di compattarsi in un rapporto vittima-carnefice dall’indirizzo biunivoco.” (L’Unità, Lorenzo Buccella)
“Costruito intorno a due attrici in stato di grazia (non fosse fuori concorso, la Dench avrebbe già vinto il premio per la miglior interpretazione), il film evita i facili toni pruriginosi, grazie anche alla sceneggiatura di Patrick Marber (dal romanzo di Zoë Heller La donna dello scandalo) che scava nella psicologia delle due donne e trova per ognuna la ragione dei loro comportamenti — un matrimonio troppo «impegnativo» per Sheba, con un figlio handicappato, e una omosessualità troppo repressa per Barbara — ma non la giustificazione per le loro azioni. Finendo per offrire un quadro della scuola, e della società, inglese che con i toni della commedia di costume ci offre l’impietoso ritratto di un fallimento epocale.” (Corriere della Sera, Paolo Mereghetti)
“Le due attrici sono magnifiche. Il film inglese è ben fatto, ipocrita, sottile e morboso, tuttavia medio. L’elemento più interessante è che innamoramento, amore e sesso sembrano nella storia abbastanza trascurabili al confronto con la contemporanea pulsione di onnipotenza. L’insegnante quarantenne domina il quindicenne con il fascino di un’autorità divenuta intimità; il ragazzo domina lei con il desiderio e la forza della giovinezza, del rischio; l’insegnante anziana domina tutti e due tasformandosi con il tradimento in un arbitro delle loro vite.” (La Stampa, Lietta Tornabuoni)
“Judy Dench e Cate Blanchett, la più trasformista delle dive attuali, sono straordinarie nel tratteggiare ricerca dell’amore assoluto, perversioni e caduta nel baratro di due insegnanti.” (La Provincia, N. Fal.)
Accolto molto bene l’unico film italiano in concorso nella sezione Panorama, il travagliato “Riparo – Anis tra di noi” di Marco Simon Puccioni. Il regista ha denunciato le innumerevoli difficoltà incontrate nel nostro paese, dai finanziamenti all’impossibilità di trovare attrici italiane e ora anche per la distribuzione, proprio per la tematica omosessuale del film. Il film racconta infatti di una consolidata coppia lesbica che tornando da un viaggio in Africa si ritrova un clandestino nel bagagliaio dell’auto. L’oppressione sociale, le differenze di classe e quest’ultimo arrivato metteranno a dura prova il loro amore.
” È una storia che penetra le coscienze quella raccontata in Riparo – Anis tra di noi, secondo lungometraggio di Marco Simon Puccioni… In Riparo la duplice vocazione al pubblico e al privato si allinea sulla trama di un film che ha, tra i vari pregi, quello di non fornire mai una rappresentazione semplicistica delle tematiche complesse che affronta… Lo sguardo attento e coraggioso di Puccioni, anche sceneggiatore del film, trova un contributo efficace nelle intense interpretazioni delle due protagoniste” (Il Riformista, Anna Maria Pasetti)
” Uno di quei film che all’inizio sembra doversi sgranchire le gambe per poi correre su una pista che attraversa una lunga serie di marginalità, tutte prepotentemente ancorate al nostro tempo. Dislivelli sociali, economici, etnici e sessuali che trovano una linea di convergenza narrativa nell’applaudito film con cui il giovane regista romano Marco Simon Puccioni si è presentato l’altro giorno a Berlino nella sezione «Panorama»… Tra reciproche diffidenze interculturali, omosessualità mai accettate, ipocrisie di facciata e la precarietà di lavori sull’orlo del licenziamento, il racconto sfrega dignitosamente i nervi scoperti di quel piccolo-mondo, riuscendo a capovolgere le sicurezze tanto cercate in una resa dei conti capace di sbrecciare ogni legame di finto-aiuto.” (L’Unità, L.B.)
“… Molto meglio, allora, il terzo film italiano presente qui a Berlino, Riparo di Marco Simon Puccioni, nella sezione Panorama. Opera seconda che sconta qualche ingenuità produttiva (Maria de Medeiros, pur brava, non è molto credibile come friulana) il film racconta lo strano incontro, dalle parti di Udine, tra una coppia di lesbiche (la borghese de Medeiros e la proletaria Liskova) e un giovane immigrato clandestino (Mounir Ouadi). Tensioni personali, pregiudizi sociali e paure razziali si intrecciano in un convincente spaccato della provincia italiana dove il denaro è ancora potere e la rabbia esplode all’improvviso.” (Corriere della Sera, Paolo Mereghetti)
L’attesissimo “The Walker” di Paul Schrader ha scontentato tutti quelli che si aspettavano una versione aggiornata di “American Gigolò” e ha invece soddisfatto i palati più sofisticati. Grandi ovazioni per le superbe interpretazioni di Woody Harrelson, nella parte di un gay cinquantenne che fa l’accompagnatore di ricche signore dell’alta società, e, nel ruolo di una di queste, la grande Lauren Bacall.
“Thriller sofisticato scritto iniettando vetriolo nelle battute, come ai tempi di Lubitsch, e girato mettendo dietro la cinepresa non soldi ma occhi di talento, un cuore penetrante e una cura coreografica dimenticata per le immagini (per far danzare le emozioni bisogna saper guidare carrellate circolari e dolly pensanti, come De Palma)…” (Il Manifesto, Roberto Silvestri)
“The Walker di Paul Schrader denuncia l’ipocrisia sessuale, partendo da una figura, il walker appunto, spesso di bell’aspetto e gay, che accompagna mogli troppo sole. Qui è il figlio (Woody Harrelson) di un influente politico, che si trova invischiato nell’omicidio dell’amante di una delle sue clienti. Una delle signore che intrattiene nelle serate di canasta è interpretata da Lauren Bacall (vedova di Humphrey Bogart e Jason Robards) e star di decine di film.” (Il Giornale, Salvatore Trapani)
Accoglienza divisa per l’ultima fatica di André Téchiné, “Les Témoins”, un film che affronta il disorientamento provocato dall’emergere dell’Aids nei primi anni ’80. I protagonisti sono un poliziotto (Sami Bouajila), sposato a una scrittrice (Emmanuelle Béart), ma attratto da un giovane (Johan Libereau) per cui ha perso la testa anche un maturo medico (Michel Blanc).
“Incrociando passioni omosessuali ed eterosessuali, osservando con la stessa comprensione priva di pregiudizi chi sceglie la solitudine (la cantante interpretata da Julie Depardieu) e chi si offre per denaro («il più bel mestiere del mondo, non solo il più antico» dice la prostituta Sandra), Les Témoins non nasconde i limiti delle persone (la Béart fatica ad accettare la propria maternità) ma fa del vitalismo dei suoi personaggi una forza propulsiva che dallo schermo invade la platea.” (Corriere della Sera, Paolo Mereghetti)
“… diminuivano gli incassi. E non dovrebbero essere alti nemmeno in Francia quelli de Les témoins («I testimoni») di André Téchiné, presentato ieri in concorso al Festival di Berlino. È l’ennesima storia di gay tristi, almeno da quando (siamo nel 1984) sono colpiti dall’Aids.” (Il Giornale)
” Uno dei primi film visti che non aveva a che fare con lo spionaggio, bensì con la comparsa di un virus che ha cambiato l’idea del sesso e dell’amore. Siamo nel 1984 e l’Aids sta facendo le prime vittime e la paura si diffonde. Mehdi (il magrebino Sami Bouajila) e Sarah, lui poliziotto lei scrittrice, sono una coppia aperta. Anche troppo. Lui, dopo aver salvato Manu, un ragazzo gay, dall’annegamento, ne rimane attratto: quando quest’ultimo contrae il virus, il rapporto nella coppia cambia radicalmente. La malattia non risparmia nessuno. Ma mostra anche l’impegno di un amico medico (Michel Blanc), che dopo aver avuto una storia con Manu, si impegna nella ricerca sul virus.” (La Provincia, N. Fal.)
Nella sezione Forum è stato molto apprezzato anche “Tuli” del filippino Auraeus Solito (l’autore di The Blossoming of Maximo Oliveros), film già premiato in patria come miglior film e miglior regista dell’anno, che vedremo in aprile al festival gay di Torino. Il film racconta della ribellione della bella Daisy che si mette contro tutto il villaggio perchè sceglie di vivere con la donna che ama e con l’amico che darà loro un figlio, in una nuova e sensuale dimensione famigliare.
“film sorpresa, di genio, … un film che mostra sostanza narrativa e visuale stratificata, un uso a tutto campo del digitale soffermandosi con particolare amore e gioia, sulla fisicità sontuosa, quasi mitica, dei suoi attori immersi in una natura che è anch’essa conflitto, splendida e agghiacciante, popolata di apparizioni misteriose, segni di una memoria cancellata troppo in fretta. ” (Il Manifesto, Cristina Piccino)
Buona accoglienza nella sezione Panorama anche per “Itty Bitty Titty Committee”, prodotto dall’associazione POWER UP (Professional Organization of Women in Entertainment Reaching Up) un’organizzazione nata nel 2001 che ha lo scopo di promuovere e sostenere la diversità e la visibilità lesbica nel mondo dello spettacolo. Il film racconta dell’iniziazione di Anna sia all’amore saffico che alla lotta contro l’oggettivizzazione della donna fatta da un gruppo di femministe punk chiamato CIA (Clits in Action). La regista Jamie Babbit ha detto di avere utilizzato nel film ricordi della sua esperienza negli anni ’90 dentro gruppi come ACT UP che combattevano contro l’Aids o altri piccoli gruppi lesbici. Il tema politico e quello sessuale hanno per lei la stessa importanza.