UNA CONFESSIONE DI FERZAN OZPETEK

Ozpetek racconta come per lui “cinema ed emozione coincidano”

Abbiamo rubato dalla rassegna stampa di questo mese un bellissimo articolo del regista Ferzan Ozpetek, pubblicato su Micromega 7/2006, numero monografico dal titolo “Almanacco del cinema italiano”, ancora reperibile nelle edicole, che ci racconta alcuni segreti della sua infanzia e dei suoi film. Li racconta come le storie che gli piaceva ascoltare da piccolo, magari un po’ insaporite, ma con la certezza che venivano dal cuore. E così riesce ad emozionarci, con piccoli aneddoti, piccoli segreti, come davanti ad un suo film. Dopo avere letto queste poche pagine ci sembra di comprendere meglio anche i suoi film, anzi, ci sembra che non siano più solo film, ma fatti che appartengono ormai anche alla nostra storia. Ozpetek ha appena iniziato le riprese del suo prossimo film, “Saturno contro” del quale ha detto che la trama gira “intorno alla cosa principale che è l´amicizia, che lega tutto. Amicizia mischiata ad amore e sesso, che poi è proprio lo specchio della mia vita”. Sarà quindi un’altra “confessione” di questo grande regista, uno dei pochi che riesce sempre a fare sentire grandi anche noi, poveri spettatori.
Riportiamo di seguito l’articolo.

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L’ASSENZA PIU’ ACUTA PRESENZA

Il valore di un’infanzia piena di storie e della presenza scatenata dall’assenza, la realtà dei personaggi e le fatine’ dei film: raccontata in prima persona, la poetica di un regista
che, ‘nato nella capitale dell’Impero romano orientale, vive in quella occidentale’ convinto che non sia importante come hai vissuto la tua vita, ‘ma come la racconti’.

FERZAN OZPETEK

Nei miei film ritrovo sempre un verso di poesia di Attilio Bertolucci che mi piace molto: L’assenza più acuta presenza.

Mi produce delle grandi fantasie entrare in una stanza dove sono state altre persone prima di me. Divento come un ispettore dell’Ottocento che controlla tutto: le cose lasciate, le cose toccate, la posizione della poltrona e l’incavo che vi ha impresso il corpo di qualcuno, attraverso il quale, addirittura, cerco di farmi un’idea del peso della persona. Questa mia mania mi segue anche se mi trovo a vivere, come per altro è sempre avvenuto, in una casa dove altri hanno vissuto prima di me. Mi domando che cosa facevano, che cosa succedeva.

Per Il bagno turco abbiamo perlustrato i quartieri fatiscenti, abbandonati di Istanbul, che sono anche i più belli, e che poi sono diventati, come è successo anche con Le fate ignoranti, dei quartieri ricercati. Siamo partiti dall’Italia in otto. Otto leoni. Ricordo quei giorni con grande gioia ed emozione e anche con un po’ di malinconia. Il bagno turco è stato un film a bassissimo costo. Ci siamo dovuti arrangiare. Non ci mancava però la determinazione. Mi ricordo molto bene l’emozione che ho provato il giorno che abbiamo scoperto il bagno turco dove poi abbiamo ambientato il film. Era un vecchio bagno abbandonato da più 20 anni. La porta era chiusa con le catene. Senza pensare a tornare indietro per cercare qualcuno che avesse le chiavi, come avrebbe fatto una persona civile, io sono salito su una macchina, da qui sono salito lungo delle scale che portavano a una finestra aperta e mi sono calato direttamente dentro l’ambiente dello hamam.

La mia emozione fu enorme. Mi sono trovato in un ambiente in cui tutto era rimasto come se dovesse essere riaperto il giorno dopo. Da una parte c’erano anche alcuni asciugamani ripiegati. Dentro filtrava una luce particolare. Un raggio di sole batteva su un angolo. In una delle vaschette ancora gocciolava l’acqua. In quel luogo 20 anni fa si lavavano, si guardavano, c’era un’atmosfera di sensualità. In quel momento ho ripensato all’usanza con la quale in Turchia un uomo trovava moglie poiché lui non poteva vederla nuda, era la madre che la vedeva per lui al bagno turco, dopo essersi messa d’accordo con la madre della ragazza. La sera, ritornata a casa, non avrebbe detto al figlio nient’altro che quella certa tal ragazza era molto carina. Oggi quest’usanza non esiste più. I bagni turchi non sono più un luogo di socialità e non c’è piú la cerimonia del bagno. C’è una frase che riguardava il bagno turco che mi piace molto: Dando sollievo alla carne, si arriva a dare sollievo allo spirito

Così, l’aver riscoperto quel bagno turco mi aveva prodotto mille tipi di fantasie. Nel film c’è una scena nella quale il protagonista entra per la prima volta in un bagno turco e rimane sorpreso dell’atmosfera. Lui non comprende nemmeno perché quel luogo gli procura un’emozione così grande. Tuttavia, da quel luogo a lui sconosciuto passerà il suo destino. Ecco: per me il cinema coincide con l’emozione. Non credo che il cinema debba mandare un messaggio, non credo nel film “a tesi”. Non racconto una storia per comunicare un messaggio. Quando giro un film mi devo emozionare. Sul set qualche volta di nascosto piango. E se un giorno non sento l’emozione di un attore, di un’attrice, significa che la giornata non è stata del tutto soddisfacente.

E’ importante perciò che io senta la realtà dei personaggi. Le fate ignoranti, ad esempio, è un film che parte da una storia vera. E’ la storia di due miei amici, che avevano vissuto una storia molto simile a quella che racconto nel film. Ma anche Harem Suare ha una radice profondamente soggettiva. Il film mi è stato, per così dire, quasi suggerito da una signora circassa, un’amica di mia nonna che ascoltavo quando ero bambino. La signora veniva a trovarci quasi ogni 15 giorni a casa. Allora non c’era la televisione. Così anche noi bambini restavamo ad ascoltare i suoi racconti. Sicuramente, quella signora, un tempo doveva aver fatto parte di un harem. Tutte le storie che ci raccontava le prendeva dai suoi ricordi. Noi bambini fingevamo di dormire, perché in realtà non c’era permesso di ascoltare quello che diceva. Ma, naturalmente, ci incuriosivano moltissimo le sue storie. Allora… il sultano toccava la ragazza e lei abbassava lo sguardo… Quando capivamo che la storia stava per finire, fingevamo di svegliarci, perché lei, come per una magia, tirava fuori tre mele e diceva: «Una per chi ha raccontato la storia, una per i protagonisti di questa storia, e un’altra per me». Con gli anni ho capito che «per me» significava che quelle che ci raccontava erano le storie. Le tre mele andavano una a chi ha raccontato la storia, una a chi è stato ad ascoltare e una alla protagonista. Una scena con le tre mele si trova anche nel film.

Harem Suare è la storia di un amore impossibile e di una grande rimozione collettiva. Quando hanno chiuso gli harem, gli eunuchi, al di fuori di quel mondo, non avevano più possibilità di vivere. Non potevano più stare vicini alle donne. La società li rifiutava: era come mettere dei trans in una società di leghisti. La gente si vergognava perché loro rappresentavano il passato e anche perché non volevano prendere coscienza di che cosa era stato fatto a queste persone. La gente li voleva cancellare. Una volta chiusi gli harem in alcuni casi donne ed eunuchi hanno continuato a vivere insieme, in altri no. Gli eunuchi si dovevano evitare, la gente chiaccherava di loro. Purtroppo in alcuni momenti il film è molto specifico e così chi non conosce la storia dell’harem perde alcune sfumature.

In generale, la conoscenza dei personaggi mi serve come bussola di riferimento. Girando il film, infatti, mi metto in rapporto giorno per giorno con quello che mi indica lo stesso film. Se i personaggi delle mie storie sono irreali, rischio di trasformare l’intreccio in qualcosa di troppo intellettuale che finirebbe per allontanare il film dallo spettatore. Quello che mi propongo, invece, è di arrivare a tutti: agli intellettuali e ai non intellettuali.

La vecchia alcolista che si vede in Cuore sacro assomiglia a una delle mie zie. Quando veniva in casa e non c’era mia madre, tossiva. Poi mi diceva: « Senti che tosse? C’è forse da bere? » Mia madre si raccomandava di non darle assolutamente da bere. lo dicevo: «Non ho niente», e lei: «Ma sei sicuro? ». E io: « Forse ho del Cinzone ». Allora mi faceva salire sull’armadio, e mi faceva prendere il Cinzone. Poi non lo beveva dal bicchiere, ma da un cucchiaio. Dopo aver bevuto mi guardava e diceva… «Tossisci un po’». lo tossivo, e lei: “Uhm, non mi piace la tua tosse: prendi un po’ di Cinzano anche tu». Sapeva che se non me lo avesse dato, un’altra volta non sarei più andato a prenderglielo. Ma dopo il mio cucchiaino io mi addorirnentavo subito. C’era qualcosa di insolito che mi affascinava molto di lei, e che mi attraeva. Mi parlava di cose assurde. Era il 1968. Un momento molto complesso in tutto il mondo. E lei mi diceva delle cose molto leggere: «Un uomo deve sapere come si costruisce un aquilone». L’amavo perché veniva considerata come una poco di buono, una che stava sempre con uomini diversi, e che aveva dilapidato delle fortune. Era una fallita leggermente alcolista: come fai a non amare un personaggio del genere? Era una folle, ma per me raccontava l’essenziale della vita.

Attraverso i personaggi e i luoghi che rappresento, torna sempre nei miei film il verso di Attilio Bertolucci che ho citato all’inizio, L’assenza píù acuta presenza. La presenza dell’assenza mi commuove. Mi commuove andare al Ghetto, camminare per la strada e pensare che sessant’anni fa hanno portato via delle persone, una mattina, mentre io oggi, invece, per quelle stesse strade vado a comprare il pane o i bruscolini o vado a trovare i miei amici. Con gli amici, ci fermiamo in un angolo nel quale, anni prima, si è consumata una tragedia, oppure, al contrario, ci fermiamo dove due amanti, che ora non ci sono più, un tempo si sono baciati per la prima volta, e in quel luogo hanno trovato la loro gioia.

Ho un nipotino che mi somiglia. Penso che quando avrà 20 anni io, se ci sarò ancora, ne avrò 67. Cerco oggi di immaginare che cosa penserà tra tanti anni di suo zio.

Quando è uscito Il bagno turco molti critici hanno parlato della zia che lascia il bagno turco al nipote, e che non si vede mai nel film. La zia era una protagonista presente, ma assente; una protagonista che non si vede mai. Quando è uscito il film Marco Lodoli ha scritto che se si doveva dare un premio ad un’attrice, questo spettava alla zia di Il bagno turco di Ozpetek. Mi piace molto l’idea di entrare in un posto in cui tua zia parlava addirittura di te mentre tu non la conoscevi nemmeno. E poi, quando ormai lei non c’è più, entri nella sua stanza e trovi i suoi oggetti di tutti i giorni.

Ho avuto un’infanzia bellissima, piena di storie. Forse è solo per questo che il passato mi sembra contenere delle possibilità inesplorate e positive. Mia nonna era la moglie di un pascià, che conosceva il mondo come era al tempo dell’Impero ottomano. Gli ultimi anni li ha passati nella nostra casa perchè non poteva più vivere da sola. Lasciava una bella casa, su due piani, con un giardino, piena di oggetti antichi, di quadri, di specchi. La casa fu venduta, perché a mia madre sembrava inutile. Mia nonna non poteva più vivere li. Mi ricordo che un giorno che rimasi in quella casa con mia madre, lei mi spiegò dove si preparavano le marmellate, un tempo, in determinate stagioni, quando arrivavano due donne con la frutta fresca…

Anni dopo, quando la casa era già stata venduta, accadde che mia nonna cominciò a battere le mani, come si usava ai suoi tempi, per chiamare la cameriera che si occupava di lei. E disse: «Preparami le valige perché io me ne torno a casa». E io le dissi: «Ma nonna! Ma no, dove torni? ». Mia madre mi fulminò con lo sguardo, come per dire «Non ti azzardare a dire niente». E io: «Casa tua è stata venduta».

Mi piace molto la frase che chiude Harem Suare: Non è importante come hai vissuto la tua vita, ma come la racconti. Riguarda da vicino il senso della mia vita. Simone Signoret, nel suo libro La nostalgia non è più quella di un tempo, dice che quando ti ricordi le cose non le ricordi esattamente come sono. E vero. lo non dirò mai, li c’era un prato, li c’erano delle foglie verdi e scorreva dell’acqua. Dirò, invece: lì c’era un prato con un color verde che accennava a diventare scuro, e poi c’era il vento che muoveva i fiori e l’erba… Aggiungo e modifico per rendere più interessante il mio racconto. Se io incontro un vecchio con un pacco in mano che non riesce a trovare casa, lo porto a casa, ma poi nella mia immaginazione mi costruisco una storia che riguarda quell’uomo, come in La finestra di fronte.

Credo molto nelle fatine dei film. Voglio dire che, per me, girare un film non è mai un’attività pianificabile. A volte mentre giro un film succedono delle cose impreviste, che spesso introducono un tocco di magia che non era calcolabile. In Le fate ignoranti Margherita Buy era incinta, e non era un fatto previsto. lo l’ho messo subito nella sceneggiatura. Se un giorno piove, e per la sceneggiatura doveva esserci il sole, io giro lo stesso, perché mi aspetto che qualche cosa comunque accadrà di positivo per il film. All’inizio di Il bagno turco si vede la cupola di San Pietro: mentre giravamo quella prima scena cominciò a cantare il muezzin della vicina moschea di Roma. Non era previsto. Così, solo dopo aver chiuso il film, mi sono accorto che chiudevo il film con un’inquadratura di Santa Sofia, mentre l’avevo iniziato con un’analoga inquadratura di San Pietro.

Ma questa casualità in realtà esprime qualcosa che mi riguarda da vicino. Una volta un giornalista ha scritto di me una cosa in cui mi riconosco: «Ozpetek: nato nella capitale dell’Impero romano orientale, vive in quella occidentale». In realtà anche la storia della Turchia – e intendo con ciò anche la storia di Bisanzio, dell’Impero romano orientale, del cristianesimo orientale, della cultura del mondo ottomano – è la presenza di un’assenza. In Italia si sa pochissimo sulla Turchia. Viene catalogata nel genere «paese arabo», sebbene non sia affatto un «paese arabo». In televisione si vedono dei posti della Turchia che io non ho mai visto e che non conosco, un po’ come quando gli americani rappresentano l’Italia con un paesino della Sicilia di 20 anni fa. Purtroppo questo atteggiamento non cambia. Se ci sono 40 persone e in mezzo c’è una donna con il velo in testa, i giornalisti televisivi riprendono in primo piano quella donna. Eppure, nell’Impero ottomano le donne non si coprivano. Quel veletto trasparente che si vede sulla testa delle donne in Harem Suare non era affatto un velo per nascondere la bellezza della donna, al contrario, serviva a renderla più misteriosa.

Fin da piccolo sono cresciuto tra le moschee, le chiese, le sinagoghe, tra gli armeni, i greci. Mia madre mischiava tutto. Oggi si divide tutto. Io continuo a mischiare tutto. Quando leggo che un leghista viene disturbato da una moschea mi viene da ridere. lo sono cresciuto tra quattro religioni, tutte mescolate tra loro. Per questo ho grande rispetto per il sacro dell’altro. Sono affascinato dal sacro, come mi affascinano i dolci o i piatti che sono l’espressione di una civiltà. Quando trent’anni fa, per studiare il cinema venni in Italia invece di andare a studiare in una scuola di cinema a Los Angeles, mio padre si arrabbiò molto. Mi diceva: ma che ci vai a fare in Italia? Impari una lingua che non ti servirà a niente, in un paese che è sviluppato come la Turchia (me lo diceva trent’anni fa). Quando poi ha saputo che volevo dedicarmi al cinema, ritenne di avermi perso completamente. Mi disse che per lui era come avere un figlio in un circo. Ha cambiato idea solo quando un anno, tornando nella scuola dove era stato studente, gli hanno chiesto: «Ma lei è parente di Ozpetek»? Allora mi ha telefonato a Roma ed era felicissimo. Da allora il suo atteggiamento nei miei confronti è cambiato, ma ci sono voluti molti anni. Oggi capisco meglio la mia scelta di vivere a Roma. Ci sono molte cose che Roma e Istanbul hanno in comune e che le lega, anche se non sempre questo legame è evidente. Anche qui si ritrova la presenza di un’assenza. Per questo mi affascina molto vivere tra Roma e Istanbul, tra le due antiche capitali dell’Impero romano.

(a cura di Giovanni Perazzoli)

da MicroMega 7/2006 (Almanacco del cinema italiano)


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