Iolanda Gigliotti, in arte Dalida, italiana di nascita egiziana, adottata e celebrata dalla Francia quale “faraona” del palcoscenico, ha i tratti di una figura leggendaria d’altri tempi, ben al di là del calendario. Affermatasi come cantante melodica convenzionale negli anni Cinquanta, diventata interprete di brani d’autore nel clima sociale del post-sessantotto, quindi vedette internazionale di music hall, infine assurta, volente o nolente, a icona dell’emergente sottocultura gay nell’ultimo periodo di vita. Vestale del sacro fuoco della musica leggera, affetta da un complesso di immortalità, maschera tragica nonostante il copione da commedia o varietà, prigioniera dello spettacolo che deve andare avanti a tutti i costi, ha trovato nella morte violenta di propria mano l’esito degno di un’eroina. A tre decenni dalla scomparsa il saggio rilegge la sua vicenda personale in chiave di sociologia del costume, con particolare attenzione agli agganci con la comunità omosessuale che ne ha fatto una stella del suo firmamento canoro. Per non dimenticare che c’è sempre una canzone a siglare le epoche e i sogni.
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