Fino a qualche decennio fa, la rappresentazione della lesbica nel cinema era quasi esclusivamente stereotipata: “lei” era una criminale
e/o una donna psichicamente instabile con un percorso obbligato verso la tomba o il sanatorio.
Oppure transitoria, affetta da confusione senti/mentale, da cui rinsavire per tornare a una (sana e consapevole)
eterosessualità.
Negli ultimi anni però si sta andando verso una normalizzazione. Non tutto e cambiato, ma certo molto si è spostato, sia nel cinema sia nella televisione. La dualità maschile/femminile non è più l’unica a poter raccontare il desiderio: la macchina da presa veicola uno sguardo empatico e diventa un dispositivo che tenta di registrare la complessità di figure non più inchiodate in ruoli fissi e monolitici, bensì variamente contrastate da emozioni e sensazioni.
Lo sguardo diventa un sentire all’interno di una relazionalità costitutiva che coinvolge tutte: registe, attrici, spettatrici. Non è più solo una questione di visibilità, ma di posizionamento: riconfigurare lo sguardo filmico in modo che rifletta una nuova relazione femminile con il desiderio, che non è solo desiderio dell’altra, ma è soprattutto desiderio di libertà.
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