C’è Maria, la madre amatissima, astro nel cielo dell’infanzia, e il padre Gilin, l’uomo di vento; c’è Michin, la caustica e brillante prozia zitella, mai conosciuta ma vicina come una gemella d’anima; e poi Polonia, la zia ostetrica dolce e gaudente… Ma soprattutto c’è magna Ninin, la zia con cui Margherita è cresciuta, brusca e brontolona, sempre presente e insostituibile, «l’origine e l’archetipo. Ninin l’instancabile, Mulier Fabricans». Sì, perché Margherita Giacobino, classe 1952, è cresciuta in una famiglia di donne, e sente più che mai vive le proprie radici silenziose e forti. Il sangue che le scorre nelle vene è denso di storia e di storie che solo la scrittura può salvare: «Si dice che offrire cibo ai morti serva a placarli, perché non tornino a disturbare i vivi. Ma a me piacerebbe che tornassero, non sarebbe affatto un disturbo; e scrivendo ho cercato di persuaderli a venirmi a trovare». Nel ripercorrere le ramificazioni della propria famiglia, attraversa oltre un secolo di storia italiana: dalle campagne del Canavese alla fine dell’Ottocento alla Germania in cui il padre viene fatto prigioniero durante la Seconda guerra, dal boom economico fino a oggi. Dall’arcaica e implacabile gerarchia degli avi, con le storie raccontate nella stalla mentre i bambini aiutano a cardare la lana, alla felice convivenza delle magne, che negli anni Venti scelgono il lavoro in fabbrica liberandosi dall’oppressione della famiglia d’origine. Dalla incredibile vicenda di una bimba che da sola attraversa l’oceano fino al negozio di alimentari di cui la madre dell’autrice è signora incontrastata e si conquista giorno dopo giorno l’indipendenza e la libertà. Giacobino attinge al pozzo prezioso del dialetto, suggello dell’appartenenza a un mondo, lingua madre: la sola capace di evocare e tenere vivo in noi «un tempo prima del ricordo», di far emergere «minuscoli frammenti fossili nella materia opaca del passato». E con questi frammenti di memoria costruisce un grande romanzo sull’identità e sull’amore. Seguendo le tracce della propria infanzia con l’attenzione e la cura di un archeologo, interroga i suoi familiari, li racconta, ridà loro vita con afflato lirico e acume antropologico, con una scrittura magistrale, con nostalgia e ironia. Con infinito affetto. Perché solo tramite chi ci ha preceduto possiamo arrivare a conoscerci davvero.
Effettua il login o registrati
Per poter completare l'azione devi essere un utente registrato.
Condividi