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CRITICA:
“Reduce dall’ultimo festival di Cannes, dove non raccattò pallino ma alimentò molte polemiche, il film col quale il maestro ungherese si è convertito al cinema di largo consumo affronta il giudizio del pubblico, che nel genere erotico ha ormai tante occasioni di confronto, con ferma speranza di successo. Per quanto si possa lamentare la resa di Jancsó agli imperativi della cassetta, il suo film è infatti di molte spanne superiore al cinema da caserma: per le squisitezze dello stile e l’eleganza dell’interpretazione, se non proprio per il discorso ideologico invocato come alibi di qualche momento lubrico.
Ripetendo quanto dicemmo da Cannes ricordiamo che si tratta, per certi versi, d’una nuova versione della tragedia di Mayerling in cui trovarono la morte Rodolfo d’Asburgo, il figlio di Cecco Beppe, e la sua amante Maria Vetsera. La versione corrente, fatta propria più volte dal cinema, è che, trattandosi d’un “amore impossibile”, Rodolfo abbia ucciso la donna e si sia suicidato. La congettura ora avanzata da Jancsó e dalla sua sceneggiatrice Giovanna Gagliardo è che invece gli amanti, dando troppo scandalo, siano stati ammazzati per ordine di Cecco Beppe. Ma è una ipotesi fatta per scherzo. Jancsó infatti non ha nessuna ambizione di storico. Il suo film è una favola, ambientata in un’Europa centrale che ha i caratteri ma non il nome dell’Impero austro-ungarico e dove soltanto nei ritratti l’imperatore assomiglia a Francesco Giuseppe.
Vi si suppone che il Delfino, preferendo la libertà di un castello agli obblighi della vita di corte, sia in rotta col padre, trascuri la moglie ambiziosa, e affettuosamente custodito dalla nutrice, che all’occorrenza lo masturba, si circondi di amici nobili e gaudenti. Giardino d’ogni delizia, il parco e il castello ospitano allegri banchetti, incesti spensierati e sacrileghe cerimonie: la nutrice fa pipì nel cappello dell’erede al trono, si sputa sul ritratto dell’imperatore, ci si rotola in coppia sui letti e sui prati, e il Delfino tutto nudo passeggia fra tacchini e damigelle. In odio a papà e al potere repressivo che egli rappresenta, si spera così di dar scandalo, di farsi arrestare e di mettere in crisi l’Impero. Quando da corte arriva un generale con una severa lettera di rimprovero e minaccia, il Delfino se ne infischia e organizza un gran ballo in cui gli invitati, eccitati da un afrodisiaco, si spogliano e si accoppiano in pittoresca baldoria. Regina della festa è Mary, un ermafrodita che il Delfino finge di sposare e che userà i suoi due sessi su doppio binario: anche per sodomizzare il generale. Il quale ha assistito inorridito ai bagordi e arrestato i villici coinvolti nella danza. Finché, toccato il vertice della sfida, i sicari dell’imperatore fanno a loro modo giustizia sparando sui provocatori sovversivi e lasciando ai preti l’incarico di dare ad intendere ai posteri che il Delfino si è suicidato per amore dopo avere ucciso l’amante.
Presentato da Jancsó come una “favola della controcultura” (in realtà qui si spargono lacrime ironiche sull’infantilismo dei contestatori), il film è soprattutto un pretesto per uno spettacolo senza veli, che mette in scena molti nudi e musiche e balli gradevoli all’occhio. Dove il cosiddetto messaggio sul valore dell’utopia rivoluzionaria è affidato a scene invereconde, formalmente assai suggestive benché spesso oziose. La bella calligrafia di Jancsó non basta a fare accettare ai suoi estimatori svolazzi estetizzanti e incursioni nel surrealismo più manieristico, ma è più che sufficiente a persuadere un pubblico che abbia scarsa o nessuna confidenza con l’opera precedente di questo grande autore, uno dei maggiori del cinema contemporaneo.
Vizi privati, pubbliche virtù è soprattutto decorativo, manca di progressione drammatica e di risonanze psicologiche, ha uggiose insistenze (anche un debito col Brusati di Pane e cioccolata nella scena in cui gli ospiti starnazzano come polli), e tuttavia, come ha languori e tocchi funebri di soave evidenza, nei quali si ritrova grande talento, così offre uno spettacolo di lusso, da segnalare per l’eleganza dei costumi, le musiche deliziose (Strauss, Listz, marce militari e Francesco De Masi), i balletti ungheresi e jugoslavi, la raffinatezza della fotografia, l’allegra leggerezza dell’interpretazione: l’ungherese Lajos Balazsovits, Thérèse Ann Savoy, Pamela Villoresi, Franco Branciaroli, e una Laura Betti ormai caratterista di gran classe.” (Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera)
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