Visage comincia da una perdita d’acqua che diventa inarrestabile, e approda poi al rogo del passato, la madre morta e tutte le sue cose. E’ pieno di specchi che riflettono, di immagini in cui la trasparenza è un’illusione, mentre gli specchi rimandano immagini riflesse da altri specchi. E’ popolato di dialoghi al telefono che in realtà sono soliloqui, in cui c’è sempre qualcosa che manca, l’attore che non si trova più, il cervo sparito, l’attrice che non vuole più recitare. . . C’è anche una cena a tre, popolata di icone di Truffaut, ma non si sa chi le ha invitate e loro si sentono in trappola (le abbiamo invitate noi, sono nel nostro acquario cinematografico…). C’è la bellissima Laetitia Casta che danza e canta, e viene posseduta da Salomè, e oscura vetri e specchi. C’è Jean Pierre-Leaud (un mito per Tsai), che fa il funerale a un uccellino, ma “lui rimarrà per sempre”, mentre Pasolini, Welles, Murnau, Mizoguchi sono passati. Estasi o noia? Esercizio di mistica cinematografica (necrofila) o film su commissione pretenzioso e irrisolto? La critica si è divisa a metà su questa pellicola. Di sicuro pochi altri registi avrebbero girato un film su commissione del Louvre, in cui del Louvre vediamo quasi solo sotterranei, scale e angoli nascosti nel suo immenso labirinto, a parte una visione frontale del Battista di Leonardo Da Vinci. Tsai Ming-Liang ne ha parlato come di un film molto personale, che esplora la complessità del fare cinema e il misterioso mondo interiore degli attori, che mischia realtà e sogno abolendo la logica drammaturgica. Ma sullo sfondo c’è sempre lo stesso tema, il vuoto e il non-senso, l’assurdità dei nostri atti, il dolore impotente della condizione umana, a prescindere dalla nostra ricerca di bellezza, verità e amore. (f.t., Cineforum)
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