Vice - L'uomo nell'ombra

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Vice - L'uomo nell'ombra

Recensione di Simone Fabriziani:

“Il potere logora chi non ce l’ha” Così esordiva il Primo Ministro italiano Giulio Andreotti a chi lo tacciava nei decenni di governo democristiano di strapotere sullo scranno più alto della politica italiana. Ciò che aveva provato a portare sul grande schermo nel 2008 il regista italiano Paolo Sorrentino nel biopic rock Il divo è un pò quello che il regista (e sceneggiatore premio Oscar per La grande scommessa) Adam McKay prova a sua volta a tramutare in inafferabile racconto per immagini, ovvero riuscire a saper raccontare con piglio enigmatico, indecifrabile e totalmente imprevedibile la figura emblematica del potere. Dick Cheney è stato Vicepresidente degli Stati Uniti d’America durante l’amministrazione di George W. Bush a partire dal 2000, accumulando a sé un immenso potere esecutivo e legislativo.

Vice – L’uomo nell’ombra ne racconta gli esordi in politica durante l’epoca Nixon fino agli sviluppi più recenti travalicando felicemente tutti gli stilemi tipici del “nasce, cresce, corre” dei lungometraggi biografici più e meno recenti, trasformandosi nelle mani di Adam McKay in un prodotto atipico ed ibrido, più sovversivo quando si ferma e ripudia la narrazione tradizionale che non nel ritratto tra pubblico e privato di Cheney stesso. In stentoreo equilibrio tra agiografia e spudorata satira liberale, Vice – L’uomo nell’ombra è un film che preferisce non dare risposte allo spettatore meno smaliziato, bensì ne cerca continuamente di rifuggire dall’inevitabile schieramento politico. L’America plasmata nell’ombra ai tempi dell’amministrazione Bush Jr. è l’orrido e frammentato affresco post-moderno di una nazione occidentale sul baratro dell’indecenza, incorniciato dai volti enigmatici (e dal trucco prostetico pesante) di Christian Bale e Amy Adams, perfetta coppia di stampo shakespeariano che, nella scena più bella del film, recita il Macbeth come unico linguaggio di comunicazione possibile per il regista/sceneggiatore per poter raccontare l’enigma Dick Cheney nella cornice del suo privato. Un privato che, negli ultimi anni della sua carriera politica, gli si è ritorto contro con l’impossibilità di continuare l’eredità Cheney con la sconfitta della figlia Elizabeth alle elezioni regionali della fine del decennio, proprio quando la stessa figlia negò supporto alle unioni civili dello stesso sesso danneggiando la figlia minore Mary, dichiaratamente lesbica.

Vice – L’uomo nell’ombra funziona magnificamente più nei momenti che rifuggono brillantemente ed ironicamente l’agiografia a tutti i costi (gli escamotage meta-testuali all’interno della narrazione disseminati qua e là sono irresistibili) che non nelle note biografiche e nei dati rozzi delle azioni del potente politico statunitense. E il monologo finale del protagonista sembra ammonire lo spettatore americano con parole perentorie e allo stesso modo inevitabilmente minacciose: “voi siete diventati me”.Nel cast, oltre al trasformista Bale e la lady Macbeth Adams, anche il premio Oscar Sam Rockwell (George W. Bush), Steve Carell (Donald Rumsfeld) e Tyler Perry (Colin Powell).

synopsis

The story of Dick Cheney, an unassuming bureaucratic Washington insider, who quietly wielded immense power as Vice President to George W. Bush, reshaping the country and the globe in ways that we still feel today.

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Questo film al box office

Settimana Posizione Incassi week end Media per sala
dal 31/01/2019 al 03/02/2019 18 50.627 1.332
dal 24/01/2019 al 27/01/2019 16 90.706 1.814
dal 17/01/2019 al 20/01/2019 11 187.801 1.805
dal 10/01/2019 al 13/01/2019 10 377.427 1.823
dal 03/01/2019 al 06/01/2019 8 645.389 2.623

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trailer: Vice - L'uomo nell'ombra

Varie

Recensione di Paolo Mereghetti su Corriere della Sera del 31/12/2018:

Dick Cheney e lo strano rebus sul desiderio di potere assoluto

La vita del politico americano nel biopic con uno straordinario Bale

Qual è il vero soggetto di Vice – L’uomo nell’ombra? Fare luce su uno dei personaggi più discussi della recente politica statunitense? Riflettere sul potere e su come si conquista e si esercita? Misurarsi con le convenzioni cinematografiche e vedere fino a dove si possono stravolgere? Forse tutte e tre le cose insieme, tanto una si compenetra con l’altra mentre aiuta a spiegarla. Perché la vita di Dick Cheney, il vice (presidente) cui fa riferimento il titolo, è stata davvero uno strano rebus di cui forse solo lui possiede la chiave. E il film di Adam McKay ne propone alcune, a cominciare dal ruolo centrale della moglie Lynne, ma il regista è il primo a sapere che si tratta solo di ipotesi e supposizioni. Tutte da verificare.

In fondo, però, non è questo l’importante. Piuttosto vale la pena di lasciarsi prendere dal flusso della narrazione (e dalla prova di recitazione) per scoprire come i modi stessi del linguaggio cinematografico, il suo stile e il suo ritmo, possono diventare strumenti per scoprire e capire. Proprio come nel film precedente di McKay, La grande scommessa, dove gli intermezzi «comici» con il cuoco stellato o quelli «ammiccanti» con la pornodiva nella vasca aiutavano a spiegare come la finanza fosse in fondo questione di «cucina» (dei titoli tossici) o di «seduzione» (del compratore). Qui sono i pentametri giambici simil-shakespeariani che i due coniugi si recitano a letto o l’intervista che si trasforma in una arringa verso il pubblico a dinamitare la struttura narrativa da biopic e trasformarsi nei grimaldelli per entrare dentro una personalità (e un’idea della politica) che, come dice la didascalia iniziale, non è proprio a portata di mano. Nonostante gli sforzi per decifrarla.

Adam McKay, anche sceneggiatore, ingarbuglia subito le strade, mescolando la cronologia (di cui comunque segue grossomodo l’andamento) per mettere in evidenza le contraddizioni del personaggio: universitario svogliato fino all’espulsione ma capace di rimettersi in riga per amore della fidanzata, repubblicano per caso ma poi assistente devoto e fidato (del cinico e corrivo Donald Rumsfeld), l’unico a saper trasformare una carica onorifica (la vicepresidenza, cui lo chiamò George W. Bush) in un vero centro di potere (facendosi attribuire il controllo dell’esercito, dell’energia e della politica estera), capace di scaricare per interesse i suoi sodali ma di difendere l’omosessualità della figlia Mary anche se controproducente dal punto di vista politico, mentre quattro infarti e una sostituzione del cuore non hanno saputo piegare la sua determinazione (era stato il più giovane Capo del gabinetto della Casa Bianca, con Gerald Ford) capace della pazienza cui l’aveva allenato il suo passatempo preferito: la pesca alla mosca.

McKay ingarbuglia le strade mescolando la crono-logia per mettere in evidenza le contraddizioni del personaggio

Tutto questo, il film lo racconta attraverso la prova superba di Christian Bale, ingrassato e truccato per assomigliare al corpulento uomo politico, ma capace di andare oltre la semplice e straordinaria somiglianza fisica (che invece finisce per imbrigliare gli altri pur eccellenti attori: Steve Carell nei panni di Rumsfeld, Sam Rockwell in quelli di Bush figlio, Tyler Perry in quelli di Colin Powell, Lisagay Hamilton come Condoleezza Rice). Lui e Amy Adams, che interpreta la moglie Lynne, sanno trascendere i limiti dell’immedesimazione per dar vita a una coppia dolcemente mefistofelica, per la quale il potere diventa più importante dell’aria che respira. E non per ottenere un qualche particolare risultato o privilegio, ma per il puro e assoluto piacere di esercitarlo.

È attraverso di loro che il film supera i propri limiti (certi comportamenti di Cheney sono raccontati ma mai davvero spiegati, certe motivazioni restano troppo indeterminate) e diventa una specie di riflessione sulla supremazia americana, sul mito del «destino manifesto» che giustifica le azioni del potere (come l’invasione dell’Iraq) e sulla necessità di imporre quell’«esecutivo unitario» che le azioni permette di portarle a termine. Trasformando così un film sulla politica americana in una riflessione politica sull’America e le sue ambizioni.

VOTO: 3,5/4

 

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Recensione di EMILIANO MORREALE su La Repubblica del 3 /01/2019

Formatosi alla scuola del Saturday Night Live e collaborando con il comico Will Ferrell, Adam McKay si è rivelato clamorosamente con La grande scommessa, travolgente e cinico apologo sul diabolico funzionamento dell’economia americana e la crisi finanziaria del 2007-2008, costruito come un ironico andirivieni dentro e fuori la storia, tra straniamento brechtiano, moduli da sitcom e voice over alla Scorsese.
Ci si aspettava dunque molto dal suo biopic sul vicepresidente Dick Cheney; ma stavolta il gioco funziona meno, perché è come se lo sceneggiatore e regista si fosse innamorato delle proprie trovate.
Attraverso vari andirivieni temporali, seguiamo l’ascesa di Cheney dopo esser stato espulso dal college, l’incontro con Rumsfeld (Steve Carell), l’ascesa con Nixon e poi con Reagan.
Senza dimenticare il privato: la moglie Lynne (Amy Adams), che nel film sembra un incrocio tra Lady Macbeth e Doris Day; il rapporto con la figlia lesbica, suo tallone d’Achille.
Ma il fulcro è ovviamente l’ascesa di Bush jr. (Sam Rockwell), dipinto come un perfetto idiota di cui Cheney è il puparo, e il momento-clou è l’attacco alle Torri Gemelle, in cui, dice il film, Dick “vede un’opportunità”, e la sfrutta appieno.
Il film, che politicamente sembra un po’ una versione fiction dei documentari di Michael Moore, è utile come impressionante riepilogo storico: i rapporti con la multinazionale petrolifera Halliburton, il marketing per “vendere” misure fiscali inique (basta chiamare Death Tax la tassa sulla successione, o Climate Change il riscaldamento globale, e il gioco è fatto), la teoria dell’Unitary Executive che accentra ogni potere nelle mani del presidente, la vittoria truffaldina contro Al Gore, le bugie sulle armi di distruzione di massa in Iraq, l’insabbiamento delle notizie su Al Zarqawi che involontariamente favoriscono la creazione dell’Isis.
Tutto questo però è non potenziato ma indebolito dallo stile virtuosistico, teso a stupire con continue trovate di scrittura e regia: un narratore che viene svelato a due terzi del film, un finto finale a metà, i montaggi “creativi”, le scenette comico-didattiche un po’ da cabaret. In questo insieme, Christian Bale porta avanti la sua performance con tanto di monologhino finale (diciamo tra Actor’s Studio e imitazioni della Guzzanti), in maniera non troppo coerente col resto del film, e guarda all’Oscar, ingrassandosi dopo il celebre dimagrimento in L’uomo senza sonno.
VOTO: 2,5/5

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