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CRITICA:
Ultracorpo si apre con edipiche reminiscenze infantili e prosegue descrivendo in una cupa e inquietante ambientazione metropolitana, l’evolversi di un malessere che presto si manifesterà in tutta la sua patologica e compulsiva ossessione sessuale con un raptus di violenza, mostrando non solo a noi spettatori, ma anche al protagonista stesso il corpo estraneo che ne ha eroso lentamente la realtà percepita. Pastrello rilegge ansie e paura del diverso, esplorando l’omofobia attraverso il lento sgretolarsi di una personalità disturbata in cerca di un innesco emotivo che la faccia esplodere e lo fa con sorprendente eleganza, splendido l’onirico incipit ed efficace la sequenza di nuovo onirica del contagio, anche nel cult di Siegel la replica dei corpi avveniva durante il sonno, la notevole fotografia di Mirco Sgarzi e un cast di livello regalano all’insieme coesione narrativa e una visionarietà mai gratuita, che mantiene la narrazione ben ancorata alla realtà del contesto e soprattutto del messaggio che si intende veicolare. (Pietro Ferraro, Il Cinemaniaco)
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“Ultracorpo”, di Michele Pastrello: l’invasione dell’omofobia
L’utilizzo di metafore orrorifiche inscindibilmente legate ad una profonda introspezione psicologica sono elementi che in questo suo ultimo lavoro definiscono ulteriormente lo stile originale del regista. Nel film, la paura del diverso viene presentata attraverso un dramma sociale attualissimo, l’omofobia.
Pastrello, autore di videoclip e cortometraggi pluripremiati come Nella mia mente e 32, aveva già palesato con questi due lavori la sua particolare inclinazione all’utilizzo di metafore orrorifiche inscindibilmente legate ad una profonda introspezione psicologica, entrambi elementi che in questo suo ultimo lavoro definiscono ulteriormente lo stile originale del regista.
Si immerge nel cinema di genere per rispolverare un capolavoro della fantascienza: il cult di Don Siegel L’invasione degli ultracorpi, film che già nel ’56 anticipava in formato sci-fi le tematiche e le inquietudini apocalittiche del capolavoro di George A.Romero, La notte dei morti viventi.
Nel film, la paura del diverso viene presentata attraverso un dramma sociale attualissimo, l’omofobia, e viene descritta con il lento tracollo di una personalità disturbata pronta ad esplodere da un momento all’altro nel suo continuo oscillare tra follia e paranoia.
Gli ambienti metropolitani ed il tessuto sociale fanno da sfondo all’evoluzione di un malessere che erode dall’interno il protagonista fino all’epilogo devastante in cui si manifesta tutta la sua patologica ossessione sessuale, culminando in un raptus violento colmo di odio e rabbia.
Molto efficaci sono l’incipit onirico delle edipiche reminiscenze infantili del protagonista e la sequenza onirica del contagio, altro tributo al capolavoro di Don Siegel in cui infatti il contagio avviene durante il sonno.
Ottima la fotografia di Mirco Sgarzi, abile il cast, composto da Diego Pagotto (Fuga dal call center, L’uomo che verrà), Elisa Straforini, Guido Laurjni (Senso 45, Ris4) e Felice C.Ferrara, che valorizza l’impianto narrativo e visionario dell’opera. (SentieriSelvaggi.it)
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Di Ultracorpo, terzo cortometraggio diretto da Michele Pastrello (in realtà si tratterebbe del quarto, ma sull’esordio, oramai disperso nelle nebbie del tempo, lo stesso regista è piuttosto restio a dilungarsi), avemmo già modo di parlare su queste pagine nel corso di un breve e parziale excursus sul cinema indie nostrano ammaliato dalle chimere del genere: si trattò, all’epoca, dell’unico lavoro sulla breve distanza citato, a fronte di una discreta messe di lungometraggi. Il perché è presto detto: si annida qualcosa, tra le pieghe del cinema di Pastrello, che anno dopo anno, lavoro dopo lavoro, inizia a far intravedere squarci di una poesia turbolenta e malata, dissonante e crudele, per quanto vitale e appassionata. Michele Pastrello non è il classico regista ai primi bagliori della sua arte: rifugge le luci della scena, si ostina con pervicace coerenza a filmare il mondo che conosce meglio e che lo circonda (nello specifico la provincia veneta, quell’immenso corpo pulsante e piatto, infinito all’occhio, che è la pianura padana).
Eppure, nonostante questo, i suoi film bruciano di una fiamma inequivocabilmente metropolitana: Diego Pagotto, splendido protagonista di Ultracorpo nonché volto tra i più interessanti del nuovo panorama italiano – lo potreste ricordare per le sue convincenti interpretazioni ne L’uomo che verrà di Giorgio Diritti e Fuga dal Call Center di Federico Rizzo – si aggira per le vie della periferia di una cittadina, ma le fioche luci che lo illuminano malamente, le timbriche della notte il ritmo stesso della sua esistenza fanno immaginare i palazzi sdruciti e l’atmosfera malsana del Bronx o di Brooklyn. Non è una novità rintracciare detriti dell’horror politico statunitense degli anni ’70 nei percorsi autoriali del trentacinquenne cineasta: già 32, per fermarsi al suo lavoro più recente, inseriva nel suo originale e metaforico “eco-horror” rimbombi di Wes Craven e Tobe Hooper, in una commistione di apparati visuali destinata a sorprendere anche gli spettatori più smaliziati. Lo schema viene riproposto con ancora maggior forza e lucidità in Ultracorpo: se il riferimento immediato, fin dal titolo, è ovviamente alla paranoia da Guerra Fredda del capolavoro di Don Siegel del 1956, la messa in scena di Pastrello guarda senza vergogna a William Friedkin e al suo universo paranoide e disturbato. Intelligente incursione nella mente di un uomo ossessionato dal suo stesso essere al mondo, impegnato a interpretare il ruolo che la società gli ha (in)consciamente attribuito, Ultracorpo non è (solo) un film sulla diversità, né sarebbe esatto leggerne la metafora solo da un punto di vista strettamente “sessuale”: certo, il discorso sul diverso, l’irrequieta e insopprimibile paura della seduzione omoerotica che scuote il protagonista, è uno dei punti nodali attorno ai quali Pastrello costruisce l’intera architettura narrativa e visiva della sua ultima creatura. Ma ciononostante Ultracorpo non merita di essere portato alla ribalta tanto per le sue velleità di critica sociale – che sono relative, e del tutto accessorie alla costruzione di un immaginario personale ansiogeno e attanagliato dalla claustrofobia – quanto per il coraggio con il quale il giovane regista ha affrontato l’intera vicenda. Laddove sarebbe stato comodo, e forse persino istintivo, raggelare l’azione con uno sguardo esterno, asettico e giudicante, Pastrello sfonda una volta per tutte il muro dell’ipocrisia e si insinua direttamente nell’azione: scegliendo solo e unicamente il punto di vista di Pagotto, sposandone in tutto e per tutto la messa a fuoco degli eventi che si avvicendano sullo schermo, Pastrello costringe lo spettatore stesso a confrontarsi con il proprio io. Fin troppo facile e cieco sarebbe accusare Ultracorpo di omofobia, e ciò denoterebbe una completa incomprensione del cortometraggio – che si eleva, come da prassi per Pastrello, quasi fino alla mezz’ora di durata. Germe anch’esso come il virus dell’omosessualità che brama la conquista delle sue prede, il cinema di Pastrello penetra sottopelle, con lenta e studiata efficacia, e assoggetta al proprio volere lo spettatore, grazie anche all’elegante solidità della regia: vedere per credere la sequenza a tavola tra l’efebico padrone di casa e il palestrato idraulico, gioco di seduzione e al contempo magistrale trattato sull’orrore. Inafferrabile, il cinema di Michele Pastrello non assomiglia a nulla di ciò che attualmente ci sta proponendo il nostro sistema produttivo: Ultracorpo è, con ogni probabilità, la sua opera più matura. La speranza, la stessa che si nutre per molti altri giovani cineasti dispersi nei meandri dell’indipendenza e dell’autoproduzione, è che il mondo si accorga di lui una volta per tutte. (Raffaele Meale, Cineclandestino.it)
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