Arrivato alla soglia degli ottant’anni a Jack Collins (Derren Nesbitt) viene diagnosticato un tumore aggressivo ed incurabile che lo condurrà inevitabilmente alla morte a stretto giro di tempo. Rimasto vedovo anni prima della moglie, Jack è diventata Jackie, una drag queen che si esibisce con successo in un nightclub come cabarettista. Del matrimonio gli resta una figlia con la quale ha rotto i ponti, Lily (April Pearson). Durante una delle serate al locale, Jack conosce Faith (Jordan Stephens), una giovane regina, ed insieme trovano il modo di alleviare le rispettive solitudini.
Tucked di Jamie Patterson oltre ad analizzare quello che a tutti gli effetti può essere considerato un passaggio di consegne, la consacrazione di un erede in campo artistico, elabora il concetto di amicizia per affrontare un discorso sul gender e toccare tematiche vicine al cinema queer. La trama è lineare e non riserva sorprese, il film si muove sull’emotività, l’incapacità, e l’impossibilità, di rintracciare un segno sessuale definito, dal carattere mobile agli improvvisi cambi di polarità fino all’insorgere di veri e propri dubbi esistenziali.
Il volto di Jackie durante gli spettacoli prende a tratti le sembianze delle maschere del folclore utilizzate nel teatro giapponese, con una funzione mediatrice tra la storia ed il mito, e per fare da tramite con gli spiriti della tradizione. Ricalca i loro lineamenti tragici, anche se il demone imperturbabile, nell’assumere connotati umanoidi, trema di inquietudine facendo affiorare la fragilità. All’interno del suo appartamento avviene lo sdoppiamento estetico, un contrasto visivo e sonoro con i camerini invasi dal fumo e dalle note (la soundtrack ricopre un ruolo molto importante nell’equilibrio dell’opera). Svestiti degli abiti di scena, faccia pulita, nel silenzio di un’abitazione illuminata da una luce naturale, per il protagonista ed il suo epigono è l’occasione di riconsiderare la realtà a mente fredda. Smaltita la sbronza, rinunciando agli orpelli del trucco ed alle giustificazioni di comodo per alleviare il peso della coscienza, il peso del passato appare in tutta la sua irruenza ed il futuro, quando non già compromesso, principio di preoccupazione.
L’atmosfera intima favorisce le confessioni, e la condanna di una fine imminente, a causa della malattia in fase terminale, non può far altro che avvicinare il momento di stilare un bilancio, e provare in extremis a limitare i rimpianti. Operazione perfetta per sviluppare il legame con Faith e raccontare l’aspetto generazionale dentro uno scambio reciproco di sogni e rassegnazione, un’associazione ristretta di mutuo soccorso indispensabile per ripristinare un’identità di ruolo persa nel lutto, nella malattia, nella mancanza di riferimenti. Delicato, poco trasgressivo, il tono scelto da Patterson, tra gli alti e bassi che compongono la quotidianità, è amaro e malinconico però non cede mai allo sconforto. Evitare gli eccessi didascalici gli consente di staccarsi da un’adesione completa al cinema di genere.
[da Sentieri Selvaggi]
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