Le Traité du hasard

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Le Traité du hasard

Cronaca della vita parigina di un piccolo gruppo di amici dal 1995 ad oggi, il film racconta del modo in cui affrontano la sieropositività e l’ammalarsi di uno di loro, fortunatamente assistito dai nuovi trattamenti antivirali. Tutti i personaggi sperimentano gli stessi problemi ma ognuno a suo modo, in base al rapporto con il proprio corpo e la sua storia.
“Questo è un film sui froci. Preferisco questa parola a ‘omosessuale’. E’ una parola che ho sentito quando ero piccolo, con cui mi chiamavano quando avevo circa sette anni. E quando vieni chiamato così nel campo giochi della scuola, non è una questione di omosessualità ma della tua unicità. Molti della mia generazione, sicuramente io, hanno vissuto questa esclusione come se fossimo parte di un gruppo di pochi eletti: essere omosessuali era a suo modo essere ‘meglio degli altri’ perché tutti pensavano che eravamo peggio degli altri.” Patrick Mimouni

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Il titolo deriva dal fatto che il film procedette tra mille difficoltà economiche e si evince con evidenza che il risultato deve averne risentito: fin dal risveglio con cui s’inizia a seguire la piccola comunità eterogenea omosessuale si preannuncia una mancanza di interesse per quello che avviene nelle inquadrature insistite sui volti e sui vezzi di quel microcosmo soffocato da paure e un certo fastidio per gli atteggiamenti vittimisti si fa largo nella fruizione.

Infatti il film usa un impianto simile a quello di Cyril Collard (aleggia il fantasma AIDS in ogni azione del film) per riempirlo di paturnie e contrapposizioni tra modi diversi di proporre la propria diversità sessuale, che risultano vetusti, asfittici e relegabili in quegli specifici ambienti residuali descritti nel film. È comprensibile che molti omosessuali si riconoscano nelle singole insofferenze e nelle nevrotiche reazioni di alcuni protagonisti, però l’atmosfera rischia di ghettizzare i gay, ritornando agli stereotipi degli anni ’70, privati tuttavia della carica sovversiva e provocatoria di Rosa von Praunheim: infatti la figura del travestito di Lou Rockfeller III è solo pateticamente retro e totalmente priva di tragicità. L’evocazione della drag queen tedesca non è comunque peregrina: la pellicola è pervasa da una ricerca troppo insistita di un fondamento da ricercarsi nella anacronistica spettacolarizzazione della vita (“In che film reciti?”), evolvendo rispetto ai film di vent’anni fa soltanto per la rassegnata constatazione dell’inacidito Daisy che nella sua epoca i gay erano rivoluzionari, mentre ora si sente dileggiato dai contro-rivoluzionari. La conclusione solipsistica recita: “Le persone esistono per sconvolgerti la vita”, rendendo sarcastico l’inserimento di La vie en rose nell’epilogo.

Tutto il film è percorso da terrori di vario tipo: per l’AIDS, per l’intolleranza di Le Pen, per la guerra (un’altra guerra, bosniaca), per la vecchiaia (“È difficile invecchiare di testa”) e l’isolamento che ne consegue, per la morte (“Cinema c’est la mort au travail”, esplicita citazione da Cocteau); interessante il ruolo affidato alla morte, incerto tra il salvifico e il terrorizzato, quasi potesse trasformarsi in coscienza comunitaria, trasfigurazione di un entità divina individuale (“Dieu- peut-etre”). Ma ognuna di queste paure è affrontata con il filtro del proprio triste ripiegamento su se stessi e l’afflizione che ne deborda non coinvolge, né appassiona, semplicemente annoia. E la verbosità senza costrutto accentua l’irritazione.

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