“Rudol’f Nureev, dall’infanzia sofferta nella città sovietica di Ufa al suo emergere come studente di ballo a Leningrado, fino al suo arrivo nel centro della cultura occidentale, la Parigi dei primi anni sessanta. The White Crow è la storia dell’incredibile viaggio di un artista unico che ha trasformato per sempre il mondo della danza.
Dopo lo shakespeariano Coriolanus nel 2011 e il dickensiano The Invisible Woman nel 2013, Ralph Fiennes con la sua terza regia, The White Crow, si allontana per la prima volta dai territori e dalle tradizioni britanniche – supportando in certo qual modo anche recenti eventi della sua vita privata, come l’aver acquisito nel 2017 la cittadinanza serba – per dedicarsi alla vita di un celebre – non a caso – apolide, vale a dire il danzatore Rudol’f Nureev, nato su un treno nel 1938 in territorio sovietico, trasferitosi a Parigi nel ’61 dopo una tournée – rifiutandosi di tornare in URSS, anche perché si paventava un suo probabile incarceramento -, naturalizzato austriaco e poi morto sempre nella capitale francese nel 1993.
Fiennes sceglie di articolare il racconto su tre livelli narrativamente intrecciati, quello dell’infanzia di Nureev, quello della sua ascesa come ballerino in URSS e quello – il più concentrato temporalmente – della sua prima permanenza a Parigi che poi sfocerà nella dolorosa – ma necessaria – decisione di non tornare in patria. E se in prima battuta il racconto dei tre piani temporali, mostrati in montaggio alternato, appare vagamente didascalico, impastoiato com’è dal dovere mostrare i momenti culminanti della vita e della carriera del protagonista, va detto che alla lunga The White Crow acquista maggiore solidità e concretezza fino a incentrare il dramma su dei nuclei ben precisi e in cui ciascuno dei tre livelli riesce a contribuire simbolicamente: il dolore di distaccarsi dalla patria (incarnata non tanto dal territorio russo, quanto dalla madre, rievocata nei flashback dell’infanzia, ma anche dal suo maestro taciturno e depresso – interpretato con efficacia dallo stesso Fiennes) e l’aspirazione di veder riconosciuto il mondo della danza come unico luogo in cui sentirsi veramente realizzati. Un’aspirazione in qualche modo fatua e vana, perché si è sempre schiavi del tempo in cui si vive, ma che l’arrogante e ambizioso Nureev conta comunque di poter realizzare, guidato com’è dal suo talento e dalla sua forza di volontà, dal suo istintivo bisogno di sentirsi libero.
E se la sessualità del danzatore più famoso del Novecento non viene in fin dei conti ben specificata, vi è comunque da dire che questa vaghezza consente paradossalmente di caratterizzare meglio il personaggio come Altro rispetto ai suoi simili, come essere a-storico, a-sessuato, a-morale. Frequenta costantemente una ricca donna francese (interpretata senza troppa convinzione dalla Adèle Exarchopoulos di La vita di Adele), la maltratta in presenza d’altri e, soprattutto, non sembra mai interessato a portarsela a letto. E, al contempo, la caratteristica precipua del suo modo di ballare viene ad un certo punto identificata come quella di aver innestato elementi femminili nella danza, ribaltando dunque la classica tetragonicità e limitatezza fisica dei danzatori maschi in svolazzo e grazia tipicamente femminili, in istintiva libertà di movimento e tendenza a vincere la forza di gravità…” (Alessandro Annibali su Quinlan.it)
Peccato che il film, finanziato con 5 milioni di euro dal Serbian Film Institute, sia molto titubante sulla gayezza del protagonista, sorvolando ad esempio sul fatto che era tra i motivi principali della sua fuga dall’URSS, sulle sue tante storie d’amore gay e anche sulla sua morte avvenuta per complicazioni dovute all’AIDS.
Condividi