Film premiato al Bari International Film Festival 2017 come miglior attore non protagonista (Francesco Acquaroli). Una amicizia tra due giovani donne in una città bella e dura come Roma e il suo immenso interland. Due donne che hanno fatto scelte molto diverse nella vita: Eli (Isabella Ragonese) ha quattro figli, un marito disoccupato e un lavoro difficile da raggiungere; Vale (Eva Grieco, danzatrice di professione) invece è sola, è una danzatrice e performer, e trae sostentamento dal lavoro nelle discoteche. Legate da un affetto profondo, da una vera e propria sorellanza, le due donne sono mondi solo apparentemente diversi, in realtà sono due facce della stessa medaglia, ma la solidarietà reciproca non sempre basta a lenire le difficoltà materiali della loro vita. “… il film di Vicari, per quanto mélo e indignato, non vuole essere lagnoso. Cerca di essere vitale e proletario. E quasi ce la fa, più per merito dell’interprete che della sceneggiatura. Eli/Ragonese è orfana, ha quattro figli (dov’era la pillola? Non è nemmeno cattolica…), un marito disoccupato, guadagna 800 euro quasi tutti i mesi; ma al bancone del bar, a servire cappuccini, è un uragano, e trova anche l’energia di difendere i diritti altrui. La passione e la tecnica dell’attrice sopperiscono alla verosimiglianza. Anche l’ostentato romanesco è un po’ fasullo, ma quasi ci si crede. Quasi. Ma il primo a non crederci è lo stesso Vicari, che non riesce a fare tutto il film sulla madre coraggio, e ogni tanto sposta l’obiettivo sull’amica ballerina Vale, che ha rinnegato la madre borghese e repressa, ed è confusa sessualmente (da cui grande scena lesbo sotto la doccia, da far invidia a un Samperi anni 80: niente male per un allievo di Aristarco!)…” (Alberto Pezzotta, FilmTV)
CRITICA:
Ci rimarrà in mente a lungo questa Eli minuta, indifesa, forte, straordinaria Isabella Ragonese col suo cappottino rosso, come la bambina di Spielberg, che si alza alle 4 da Nettuno va a Roma a lavorare in un bar e torna sfinita a casa per amare, diciamo così, il marito disoccupato e i 4 figli.
Micidiale tran tran che non le impedisce di partecipare alla vita degli altri: un’amica performer che lavora di notte (bella storia ma che resta separata), l’offesa collega del bar, varie ed eventuali sempre nel deficit sociale pazzesco che l’Italia vive. È una storia vera accaduta che testimonia la disumanità del lavoro quotidiano che contagia ogni rapporto affettivo, come il neo realismo ha dimostrato. Il film di Daniele Vicari prende a prestito, in grottesco, il titolo di una canzone a rima rassicurante, ci sbatte dentro a testa in giù a osservare uno squarcio di tg inediti, la dignità di chi non vive, sopravvive.
Uno spicchio di reale in un cinema che si pasce di sentimenti scaduti fa più effetto, perché Vicari sa cosa significa il rigore non solo nella scrittura, anche nell’economia musicale, plastica, negli sguardi incrociati, nei silenzi, nei colori lividi di albe, metro, bus. La forza non retorica né patetica del cast: l’indimenticabile Isabella, Francesco Montanari, Eva Grieco, una Pina Bausch de noantri, ma soprattutto c’è la vita che ci circonda e cui noi non facciamo caso, il clima di un’esecuzione morale che mira ai sentimenti profondi. Salva solo giù nel metro un cappuccetto rosso. (M. Porro, Corsera – voto: 8/10)
Spesso le dichiarazioni preventive di un regista non servono a valutare la sua opera. Sono al meglio interessanti come intenzioni, al peggio sono solo mani avanti. Al contrario quanto dice Daniele Vicari, corrisponde al risultato di Sole cuore amore. È un film semplice, dice, come i versi della canzone, ma a fortissimo contrasto con le difficoltà di quell’enorme e crescente massa di persone di cui i personaggi sono un campione, sperse nella vastità anonima di una periferia metropolitana. Isabella Ragonese è moglie di un disoccupato che cura amorevole i quattro figli mentre lei si sbatte a raggiungere il remoto bar dove non risparmia neanche sui sorrisi per una paga e condizioni medievali. Nei rari momenti di respiro si confida con un’amica che fa tutt’altra vita. Il crescendo del dramma dà i brividi. Dice un’altra cosa vera il regista. Che rappresentare l’ordinaria quotidianità senza ricorrere a “violenze e degrado rischia di apparire insignificante”. Grazie alla sua sensibilità, Vicari ha trovato la “giusta distanza”. (P. D’Agostini, La Repubblica – voto 4/6)
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