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Una serie di sanguinosi omicidi scuote le notti di Bangkok: nel buio dei vicoli in cui il sesso diviene merce, uno spietato serial killer si aggira alla ricerca delle sue vittime. Incaricato di risolvere il caso, il “cattivo tenente” Chin si affida all’ex poliziotto Tai, incarcerato con l’accusa di omicidio e perseguitato da sogni in qualche modo collegati al caso. La situazione precipita quando viene rinvenuto il cadavere del figlio di un eminente politico locale: messo alle strette, Chin concederà a Tai due settimane di libertà per scovare l’assassino ma, come garanzia, tratterrà sua moglie. Per l’ex poliziotto è l’inizio di un viaggio a ritroso nel proprio passato, in cui realtà ed allucinazione finiscono per confondersi, dove la ricerca della verità lo porterà a scoprire che nulla è come sembra. Tra Brian De Palma e il David Fincher di Seven, Slice è un thriller dai toni cupi, costruito sul filo della memoria, arricchito da suggestivi ed efficaci cromatismi alla Mario Bava.

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Recensione di: Nicola Picchi da www.cinemalia.it

In mare viene ripescata una valigia rossa, contenente un corpo fatto a pezzi. Il cadavere è quello di un occidentale, che abbiamo visto in procinto di intrattenersi con un ragazzino prima di essere assassinato da una figura che indossa una mantellina rossa.
La vittima successiva è un insegnante di mezza età, che è solito abusare delle sue studentesse. Contemporaneamente
Tai, poliziotto sotto copertura attualmente in prigione, ha incubi ricorrenti in cui rivede quella stessa valigia, e lo confessa ad una psicologa del carcere.
Quando viene ucciso e mutilato il figlio di un importante uomo politico, il detective Chin fa liberare Tai, convinto che egli conosca il misterioso killer. Chin ordina a Tai, che ha già ucciso per suo conto, di rintracciare il colpevole entro 15 giorni.
Kongkiat Khomsiri, già collaboratore di Wisit Sasanatieng per il gotico “The Unseeable” e tra gli autori di “Art of the Devil 2”, torna con “Slice”, thriller sui generis che vale più per la riuscita ricostruzione d’ambiente e per le annotazioni sociologiche a latere che per l’iperbolica sceneggiatura, inverosimiglianza delle psicologie comprese. Storia e scioglimento finale sono analoghe in maniera sospetta a quelle del coreano “Rainbow Eyes”, ma Khomsiri non ha la languida propensione per il mélò fiammeggiante di Yang Yoon-ho. Il suo è un cinema grezzo, che poco si cura di bellurie estetizzanti ma che ripaga di eventuali mancanze attraverso una ruvida libertà espressiva, alquanto opinabile ma viscerale, d’impatto maggiore quanto più imperfetta. Tutta la messa in scena è improntata in senso antinaturalistico, con forti richiami al thriller italiano degli anni ’70, non è dato sapere quanto voluti e quanto casuali.
Abbondano decisi contrasti cromatici dal sapore onirico, riservati alle scene d’ambientazione urbana.
Khomsiri, anche direttore della fotografia, si sbizzarrisce infatti con rossi intensissimi, verdi marcescenti e viola tumefatti che rammentano i colori baviani dell’Argento degli anni d’oro. Sempre al thriller di casa nostra rimandano il groviglio di pulsioni sessuali irrisolte da “Psychopathia sexualis” e, dulcis in fundo, la mantellina rossa dell’assassino, analoga a quella sfoggiata ne “La dama rossa uccide sette volte” di Miraglia. Tutti riferimenti probabilmente involontari, ma che danno conto di un’atmosfera condivisa e di un mood riconoscibile.
Per il resto Khomsiri segue l’estro del momento, sparando in faccia la luce ai suoi protagonisti nelle scene notturne, inventandosi una ripresa in soggettiva di una folata di vento o coreografando una delirante strage in un locale a luci rosse durante un live-show. Il tutto senza risparmiarsi inevitabili crudezze grondanti emoglobina, o momenti sfacciatamente lirici. L’indagine di Tai, durante la quale si troverà a ripercorrere la propria adolescenza, vissuta in una zona rurale depressa della Thailandia, è un viaggio a ritroso nel proprio passato. Una sorta di “Stand By Me” con contorno di violenze familiari, in cui alle “madeleines” proustiane si sostituiscono ripetuti abusi sessuali. Questa parte, man mano che si dipanano ingegnosi flashback, anche generati da una sigaretta gettata via distrattamente, è la più riuscita di “Slice”: sentita raffigurazione dei caratteri, adeguata rappresentazione delle tante prove iniziatiche, anche brutali, che costellano l’adolescenza e partecipe descrizione dell’amicizia tra Tai e Nat.
E’ palese una feroce polemica con il subdolo colonialismo di ritorno cha ha ridotto la Thailandia ad un enorme mercato del sesso, in cui annoiati occidentali sfogano pulsioni che tengono ben nascoste a casa propria.
La Bangkok di Khomsiri è una sorta di girone infernale, una giostra lisergica di sesso a pagamento e corruzione, ma non per questo la Thailandia dei piccoli villaggi è luogo idilliaco.
La perdita dell’innocenza di Tai e Nat si consuma rapidamente, tra padri alcolisti, madri puttane e insegnanti pedofili, come in un romanzo verista trapiantato nel sud est asiatico. Una volta fuggiti a Bangkok, Tai troverà la sua strada attraverso la violenza, mentre Nat verrà avviato alla prostituzione per soddisfare le brame di un turista di mezza età.
Certo, i presupposti psicologici sono fallaci, ma non più di quanto si sia abituati a vedere nei corrispettivi americani, e su tutto l’insieme aleggia più di un sospetto di omofobia, ma non c’è piglio moralistico nelle azioni del killer, semplicemente la rivalsa anziché la supina accettazione dello stato delle cose: Cappuccetto Rosso non solo uccide il lupo, ma lo smembra e ne ripone ordinatamente i pezzi in una valigia.

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