Varie
CRITICA:
“‘A Serious Man’ non ha la chiarezza espositiva che distingueva altre prove dei Coen.Vive all’interno di una cultura, di una tradizione e di una mentalità lontana da noi. Così i rimandi che infittiscono i dialoghi ci paiono poco decifrabili e il divertimento per il gioco ai massacro dei fratelli Coen ci viene in parte sottratto.” (Francesco Bolzoni, ‘Avvenire’, 22 ottobre 2009)
“Come ‘Crocevia della morte’ era un mirabolante esercizio di stile sulla letteratura hard-boiled (Hammett, Chandler, Spillane) e ‘Barton Fink’ un capitolo apocrifo della Bibbia con agganci al teatro sociale di Odets, così ‘A Serious Man’ è una mimesi dei grandi scrittori ebrei-americani come Bellow, Roth e Singer. E sicuramente il film più personale dei Coen, e per certi versi il più difficile: lungi da noi affermare che sia solo ‘per ebrei’, ma una conoscenza non superficiale della Torah e della cabala aiuterebbero. Per farvelo spiegare, non aspettatevi aiuti da Joel e Ethan.” (Alberto Crespi, ‘L’Unità’, 23 ottobre 2009)
“Per rendere più inusuale il tutto, ‘A Serious Man’ comincia con un episodio avulso dal film e ambientato in uno shtetl (villaggio ebraico) dalle parti di Leopoli, si direbbe un secolo fa. In originale vi si parla yiddish, una sorta di dialetto tedesco che accomunava gli ebrei dell’Europa orientale. E qui siamo appunto nello stile di Mel Brooks. Poi la scena si sposta in una di quelle villette tutte uguali, col prato davanti, Arcadie nei film e telefilm di oltre mezzo secolo fa, poi sentina di ogni orrore in epoca recente. E qui i Coen sconfinano nelle situazioni care a Todd Solondz. Resta un quesito. Nel Minnesota chi andrebbe a vedere un film ambientato nel 1967 su un docente cattolico di fisica all’Università di Milano, con problemi coniugali e familiari, raccontata dai fratelli Taviani?” (Maurizio Cabona, ‘Il Giornale’, 23 ottobre 2009)
“La commedia di oggi, dopo tanti film belli e un capolavoro, ‘Il grande Lebowski’, mettono a nudo le proprie radici ebraiche in un tripudio di umorismo nero squisitamente alleniano. La cosa più pregevole di questa tragicomica radiografia di una comunità ebrea nella più anonima America degli anni 60, è la sua galleria di minuti personaggi, servita da un casting strepitoso fin nei ruoli minimi, passata in rassegna con la stessa ‘accorata impassibilità’ che ha distinto il grande Woody. Intorno al prof di matematica Larry Gopnik sommerso da una pioggia di contrarietà e stordito dalle inique prove di un destino che si accanisce contro la sua natura, imbelle ma degna, di ‘serious man’, vortica un’esilarante passerella: figli, loro amici e insegnanti della scuola ebraica, fratello parassita, moglie adultera, l’altro uomo, il vicino forcaiolo, la vicina tentatrice, un avvocato, il collega professore, uno studente coreano che lo vuole corrompere per ottenere un buon voto. E soprattutto i tre rabbini dai quali invano cerca indicazioni e conforto.” (Paolo D’Agostini, ‘la Repubblica’, 23 ottobre 2009)
“Il tutto affidato a interpreti sconosciuti e perfetti, con i corpi, le facce, le espressioni marcate e il fisico indeciso di quegli ebrei così diversi, avvertono i Coen, dagli ebrei newyorkesi raccontati da Woody Allen o da quelli insediatisi a Hollywood dai tempi del cinema muto. E pazienza se magari non tutto risulta chiaro alla prima visione, perché in fondo i Coen raccontano anche, con la libertà e la genialità di sempre, uno dei grandi temi di oggi in Europa: lo scontro fra generazioni che era a sorpresa uno dei temi del festival di Roma.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 23 ottobre 2009)
“Una commedia amara, non priva di humour nero, ambientata negli anni Sessanta, che rappresenta senza troppo riguardo la vita e le abitudini di una comunità ebraica dell’anonimo Midwest americano, quella provincia in cui i fratelli terribili del cinema a stelle e strisce sono cresciuti e che ha fatto spesso da sfondo ai loro film, alcuni già divenuti autentici ‘cult movies’. Pur non essendo autobiografica, l’opera risente dell’esperienza diretta degli autori, che presentano personaggi grotteschi e stravaganti quanto le situazioni che sono chiamati ad affrontare; il tutto con quell’autoironia di cui il mondo ebraico è capace. Questo saper sorridere di se stessi, anche nelle situazioni più difficili, emerge fin dall’inatteso prologo in yiddish ambientato in un’imprecisata epoca passata in cui un uomo e una donna, marito e moglie, vengono spaventati da un fantasma (‘dybbuk’), e che si conclude con un “tempi terribili ci aspettano”, a preannunciare i tempi terribili che attendono l’ignaro Larry. Quest’ultimo appare un moderno Giobbe, incapace di comprendere perché il destino abbia cominciato ad accanirsi contro di lui. E, da credente disorientato nella lotta tra ragione e trascendenza, cerca conforto e sostegno negli strumenti della fede, o meglio, negli uomini di fede, i punti di riferimento della comunità. Ma l’irriverenza dei Coen gli pone d’innanzi personaggi decisamente inadeguati, dal rabbino giovane tanto entusiasta quanto incline alle citazioni banali, al rabbino cinico e indifferente che non sa dargli consigli se non una storiella senza senso, fino al rabbino anziano, saggio e venerato come un santone, che rifiuta persino di vederlo. Tuttavia proprio quest’ultimo – sfoderando una delle battute più riuscite del film ma anche delle più criptiche se non si è esperti di musica anni Sessanta – si rivolge al figlio di Larry che ha appena festeggiato in preda ai fumi dell’erba il Bar Mitzvah, l’ingresso nella vita adulta, sentenziando: «Alla fine scopri che la verità è una bugia e la speranza fugge da te». Del resto le disgrazie dell”uomo serio’ – interpretato dal bravo Michael Stuhlbarg – sono tutt’altro che terminate. Il dramma finale che lo aspetta è infatti lo specchio della visione pessimistica, certo non nuova, dei fratelli Coen, che confezionano un bel film nel solco della loro precedente produzione. Non siamo ai livelli de ‘Il grande Lebowski’, di ‘Fargo’ o di ‘Non è un paese per vecchi’, ma i personaggi di ‘A Serious Man’, anche quelli secondari, sono ben riusciti, con le loro caratterizzazioni fortemente stereotipate, talvolta esasperate. E la storia, magari non proprio originalissima, regge comunque bene grazie anche a trovate irriguardose, ma mai offensive. Sarà anche per questo che finora le reazioni da parte ebraica in America sono state sostanzialmente positive. Ma, come hanno confessato i registi, «gli ebrei più rigidamente ortodossi non frequentano le sale cinematografiche»”. (Gaetano Vallini, ‘L’Osservatore Romano’, 25 ottobre 2009)
“Film molto bello, divertente e colto, satira 1967 dei costumi famigliari, religiosi, scolastici, caratteriali della comunità ebraica americana di Minneapolis, la città dove i fratelli Coen sono nati e cresciuti. Come Woody Allen in ‘Radio Days’ o in ‘Crimini e misfatti’, gli autori evocano il grottesco spietato l’atmosfera della propria infamia e adolescenza, attraverso un professore singolarmente sfortunato, un -uomo- serio e quasi probo a cui tutto va male, come previsto da un prologo storico in yiddish, annuncio di sventure.” (Lietta Tornabuoni, ‘La Stampa’, 04 dicembre 2009)
“I Coen bros non finiscono di stupire per come variano fonti d’ispirazione e generi. Amaro, critico, divertente yiddish Movie in cui un povero diavolo di professore di fisica nel Midwest ’67 si vede cadere il mondo addosso: chiede aiuto a tre rabbini, ma anche la Torah non sa dar risposta. Crudele e autobiografico il film metaforizza una situazione umana e finisce annunciando una catastrofe, con la leggerezza Coen. Dicono: se due ebrei discutono ci sono almeno tre opinioni diverse. Qui anche di più, partecipatevi: e cast magnifico!” (Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 04 dicembre 2009)
“Molti gridano al capolavoro, ipnotizzati dai movimenti di macchina e dal finale estremo. Il cinema moderno ha la pessima abitudine di ricompensare in ritardo i suoi maestri. Non premi, quindi ma risarcimenti. Vale molto spesso per l’Oscar, che forse ai Coen ha pure dato alla testa.” (Boris Sollazzo, ‘Liberazione’, 04 dicembre 2009)
“‘A Serious Man’, non sarà il film più remunerativo dei Coen, ma si candida seriamente per essere il più significativo, quello che pur proseguendo il loro personale percorso narrativo, scava più in profondità, in un mix straordinario che sa armonizzare musiche di Jimi Hendnx, Jefferson Airplanes e Sidor Belarsky. Congratulazioni, anzi, mazeltof.” (Antonello Catacchio, ‘Il Manifesto’, 04 dicembre 2009)
Non mi è piaciuto proprio questo film, di una noia mortale. Ho faticato ad arrivare alla fine.
non ho amato la trasposizione sulla cultura ebraica dei fratelli Coen, sembra più una presa in giro che un vero e proprio racconto di vita. Stupefacente l’interpretazione del protagonista, certe sue espressioni sono davvero ammirevoli; un humor nero, intenzionalmente amaro che colpisce ma, alla fine, che fa riflettere. Non un capolavoro ma, da vedere per gli amanti dei Coen.