Varie
The screenplay by Carolina Kotscho and Matthew Chapman takes its cue from Carmen L. de Oliveira’s Rare and Commonplaces Flowers, a Brazilian bestseller that recounts how Bishop made her way to Brazil in 1951 during a period of creativity stagnation, partly on the advice of her friend and mentor Robert Lowell (Treat Williams in a warm cameo.) She’s invited by a friend from Vassar, Mary Morse (Tracy Middendorff), to stay on Lota’s stunning Samambaia estate outside Rio, designed by Oscar Niemeyer and the landscapist Roberto Burle Marx. Though initially the straight-laced Elizabeth is repulsed by her hostess’s directness, and Lota is put off by her priggishness, their mutual attraction is strong and it doesn’t take long before the two fall in love. Mary is devastated, but Lota insists she stay on and offers to “buy her a baby” from a poor country woman to raise together. The arrangement is not perfect, given the hostility between Elizabeth and Mary; first one woman and then the other comes to the forefront of Lota’s attention and bed, until Elizabeth moves back to New York in 1967. In the intervening years she has written poetry, won the Pulitzer Prize (“Elizabeth, there’s a telegram for you!”) and become a fall-down drunk. Mary has raised a sweet little girl. And Lota has thrown herself into building Flamengo Park, through her connection with the charming but dangerously right-wing politician Carlos Lacerda (Marcello Airoldi) – both are supporters in the military coup d’etat that brings down the Brazilian democracy. A tragic (and true) coda, echoed in, and perhaps inspiring, Bishop’s oft-quoted poem One Art (“The art of losing isn’t hard to master”), gives powerful closure to a larger-than-life relationship. (hollywoodreporter.com)
CRITICA:
Nel 1951 Elizabeth Bishop si reca in Brasile. La vacanza dovrebbe durare poche settimane, ma le settimane diventano anni, perché a Rio de Janeiro la Bishop conosce Lota de Machedo Soares, architetto preveniente da una famiglia ricca e colta, con la quale instaura una relazione sentimentale lunga e tormentata, che passa attraverso la vincita del Pulitzer, la depressione, il golpe militare e l’alcolismo, fino alle estreme conseguenze.
Barreto racconta la storia d’amore tra Elizabeth e donna Lota con un film biografico che restituisce con impressionante vividezza il presente di quei giorni. È stato detto che tutte le liriche della Bishop (considerata tra le massime poetesse di lingua inglese, insieme a Emily Dickinson, Marianne Moore e Sylvia Plath) portano in calce la scritta “io l’ho visto”, e lo stesso si può dire di questo film di Barreto, che copre un arco di quindici anni senza mai farci sentire sfasati rispetto al momento filmato, ma sempre al suo interno, come presenti.
Nello spazio letterale di una poesia (“One art”), che apre e chiude il film, questo cinema riesce in uno dei compiti che il cinema in generale più ama e più teme, ovvero nel racconto di un valzer estenuante tra vita e arte. Riprendendo alcune tematiche di Donna Flor e i suoi due mariti, il regista realizza un film stilisticamente elegante e talvolta freddo come un’architettura moderna, percorso da grande ironia ma anche da un (melo)dramma che la Bishop avrebbe rigettato e snobbato, ma che ha connotato senza dubbio la sua esistenza, dall’infanzia alla fine.
Reaching for the moon celebra la forma così come la passione e sfrutta la differenza culturale tra la timida e nevrotica americana, allergica ai legami perché già “promessa al pessimismo”, e la schietta e passionale brasiliana -l’una abituata a perdere gli affetti, l’altra ad accumularli- per dar vita ad un duetto a dir poco ispirato tra Miranda Otto e Gloria Pires, cui si aggiunge Tracy Middendorf nelle vesti di Mary, personaggio chiave, spina nel fianco e prima testimone dell’”arte di perdere”.
L’omosessualità femminile è trattata con naturalezza e non fa la differenza in questa storia d’amore in cui l’arte vince tragicamente sulla vita, anche se il rapporto tra due persone dal comune sentire e dalle identiche necessità rafforza e drammatizza ulteriormente le questioni in campo.
Illuminato con i toni pittorici e metropolitani di Edward Hopper, inquadrato spesso frontalmente come un ritratto di gruppo, il film fotografa in realtà la solitudine dell’artista, il momento in cui lo scambio umano e amoroso giunge ad un punto terminale, perché, oltre, il dialogo del poeta continua solo con se stesso. (Marianna Cappi, MyMovies.it)
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“… Bella la perfetta intesa tra Gloria Pires nei panni di una donna forte e ispirata, una forza della natura, che vuole tutto (I want everything I can get) e Miranda Otto, nel ruolo di una poetessa di successo, timida, che fa fatica ad aprirsi al mondo, che si rifugia nell’alcool, ma che è forte e coraggiosamente continua a spingere più in là i propri limiti.
Il film dipinge con sensibilità i sentimenti e i ruoli delle tre donne, anche quando cambiano in modo repentino e inaspettato. Piace la naturalezza con cui viene vissuta l’omosessualità e il fatto che il film non contenga giudizi moralistici sul nucleo familiare piuttosto eccentrico o sul conservatorismo di Lota (che supporta il colpo di stato del 1964 che instaurò in Brasile un regime dittatoriale).
Un film brasiliano, ma che potrebbe benissimo essere hollywoodiano: a parte un paio di battute in portoghese, tutti parlano un inglese americano impeccabile (d’accordo: Lota ha una leggera inflessione). È un film biografico patinato che non porta nessuna bandiera: non quella di film politico o storico, e nemmeno quella arcobaleno. Letterario lo è, ma solo perché si basa sulla vita di una poetessa e perché è punteggiato di citazioni delle sue poesie, non contiene riflessioni sull’arte di scrivere. Se proprio dovesse portare una bandiera, gli metteremmo quella americana.” (Cristina Beretta, rapportoconfidenziale.org)
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“….“L’arte di perdere non è difficile da imparare – così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro – Perdi qualcosa ogni giorno – Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell’ora sprecata”. Così recita l’incipit di ‘One Art’ (‘Un’arte’), nota anche come L’arte di perdere, la più celebre poesia della statunitense Elizabeth Bishop (1911-1979), cantrice sofisticata di amori e paesaggi, considerata da Josif Brodskij “la Callas della poesia del Novecento”, vincitrice del Pulitzer nel 1956 per la raccolta ‘North & South’. Fino agli anni ’80 fu considerata una voce d’élite eccentrica, “uno scrittore per scrittori” come la definì John Ashbery, poi la pubblicazione dei suoi ‘Complete Poems’ nel ’83 le aprirono la strada a un pubblico più vasto e ora non c’è università americana che non preveda la lettura della sua opera nei corsi di poesia e letteratura. Ne ricostruisce un decennio di vita l’interessante ma un po’ oleografico biodrama “Reaching for the Moon” del brasiliano Bruno Barreto che ha inaugurato giovedì scorso a Nizza la settima edizione del Ze Festival, piccola ma curata cinerassegna itinerante in Costa Azzurra. Nel 1951, in crisi d’ispirazione, la Bishop (un’impeccabile Miranda Otto) si reca a Rio de Janeiro nella lussureggiante tenuta dove vive l’ex compagnia di college Mary (Tracy Middendorff) insieme alla sua compagna architetto, la volitiva Lota de Macedo Soares (Gloria Pires, assai efficace). Nonostante un’iniziale insofferenza reciproca – troppo raffinata e fredda la Bishop, altrettanto vulcanica e impetuosa Lota – le due donne s’innamoreranno perdutamente e saranno costrette a gestire un complesso ménage à trois con Mary a cui Lota addirittura acquisterà il bambino che tanto desiderava mentre per Elizabeth progetta uno studio tutto per lei sventrando una collinetta della sua proprietà. Ma Lota non accetta la dipendenza di Elizabeth dall’alcol e il suo distacco quando la poetessa decide di trasferirsi per insegnare un anno alla New York University.
Tratto dal romanzo di Carmen L. Oliveira ‘Flores raras e banalissimas’, indugia un po’ troppo nella vita idilliaca delle tre donne evitando ogni approfondimento psicologico (in particolare riguardo al rapporto troppo semplificato con Mary che resta in disparte) e innescando così il motore narrativo del conflitto drammatico nella parte finale che è la più riuscita. Le ottime protagoniste restituiscono con forza espressiva due caratteri seducenti e complementari, la cui omosessualità è descritta con naturalezza e pudore (ma l’agiatezza dell’architetto che progettò il Flamingo Park di Rio – sono magnifiche le scenografie moderniste della tenuta, abbellite da giardini esotici in continua ridefinizione – consente loro di vivere in una sorta di isola felice, protette dal mondo esterno: all’epoca il lesbismo, anche in Sudamerica, era sinonimo di trasgressione sociale).
Troppo sacrificata è invece la figura del mentore della Bishop, il grande poeta Robert Lowell che appare su una panchina all’inizio del film. Elegante, ben girato anche se non scava a fondo né nelle contraddizioni compromissorie del triangolo amoroso né nei tormenti creativi della Bishop la cui poesia rimane un personaggio secondario, “Reaching for the Moon” meriterebbe di essere distribuito nelle sale tradizionali per far conoscere una grande poetessa da noi praticamente ignota.” (R. Schinardi, Gay.it)
Colei che si inserisce in una storia già molto longeva è la poetessa Elizabeth Bishop, che modifica un equilibrio da molti anni esistente per crearne uno nuovo, con non poche difficoltà, soprattutto legate ad un consumo smodato di alcol, in una cornice storica di grandi cambiamenti.
Ciò che emerge chiaramente è la solitaria figura della donna come artista che, nonostante molto amata e con grande riconoscimento pubblico come poetessa, trova nel pessimismo e nell’arte gli unici compagni fedeli di una vita. La frase che più di tutte lo evidenzia è quella che dice prima di lasciare il Brasile: “Quando non riesco ad avere qualcosa che desidero sono triste ed infelice, quando invece riesco ad ottenerla, ho paura di perderla. E l’attesa che ciò accada mi uccide“.