È davvero un personaggio unico, il messicano Fernando Garcia Ortega, la cui vita rocambolesca viene ricostruita nell’interessante documentario “Quebranto” (“Disfacimento”) di Roberto Fiesco, premiato in vari festival latini, da Guadalajara a l’Avana passando per San Sebastián, e distribuito in Italia dal portale Video On Demand dell’avveduta piattaforma The Open Reel. Il “Disfacimento” del titolo si riferisce alla frantumazione e alla rinascita, per almeno quattro volte, di questo artista messicano che da piccolo, negli anni ’70, era un vivace attore prodigio che recitò persino con Antony Quinn e Dolores Del Rio nel drammatico “I figli di Sanchez” diretto da Hall Bartlett e in altri titoli piuttosto popolari in patria, come il film ad episodi “Fede, speranza e carità”. Figlio di un mariachi e di un’attrice e cantante, Dona Lilia, che lo partorì a soli quattordici anni, il piccolo Fernando fu ingaggiato in una dozzina di titoli col nome d’arte di ‘Pinolito’ o ‘Pinolillo’, di solito nel ruolo di bambino indigente oppure orfano.
Quando la produzione cinematografica messicana si orientava verso il genere erotico, Fernando perde interesse nel recitare e, ormai adolescente, intraprende una seconda carriera come ballerino mentre dentro di sé coltiva il desiderio profondo di far parte dell’altra metà del cielo, iniziando a esibirsi in drag sul palco di defilati locali di cabaret. Il coming out arriva poi irruento e drastico, con l’apparizione in abiti femminili davanti a mamma Lilia e una frase perentoria decisamente autoaffermativa: “Che vi piaccio o no, da adesso sono una donna!”. Fernando diventa così Coral, può finalmente indossare gonne colorate e accessori vistosi ma lo stigma sociale si fa pressante, non trova più lavoro ed è costretto a prostituirsi per strada rischiando anche la vita. Adesso Coral lavora in una scuola di danza, vive con l’adorata mamma Lilia ma vorrebbe tornare a recitare.
Attraverso uno stile pacato fatto di lunghe carrellate e selezionati materiali di archivio, il regista riesce a farci familiarizzare con una bizzarra creatura decisamente camaleontica, la cui evoluzione gender è andata di pari passo col suo bisogno di espressione artistica.
Ma soprattutto trasmette tutto il candore, spontaneo e genuino, dello splendido rapporto tra Fernando/Coral e l’adorata e simbiotica madre Lilia con cui divide la camera da letto e una quotidianità semplice e pratica, in un piccolo appartamento foderato da videocassette, tra bucato da stendere e le visite sulla tomba del compianto padre con tanto di collega mariachi che intona l’appropriato classico “Maldito abismo”. E la stessa Lilia è dolcissima e commovente quanto ricorda di aver risposto “Ok, va bene” all’inattesa rivelazione del figlio, e di essere solo preoccupata per le possibili cattiverie e violenze che Coral avrebbe potuto incrociare durante il suo percorso di transizione: “Pensai subito agli omosessuali che conosco. I finocchi, come li chiamano. A quelli che avevo conosciuto a Veracruz, che mi avevano raccontato le loro vite. Persone rapinate, picchiate, violentate, malviste e rinnegate dalle loro famiglie. Mi ero sempre detta: i miei figli, qualsiasi cosa facciano, sono sempre i miei figli. Io ho sofferto per loro. Sono la loro madre e li accetterò qualsiasi cosa succeda”.
Colpisce infine vedere – forse siamo ancora abituati a un’immagine piuttosto ‘macha’ della cultura messicana – una ipergender Coral cantare ispirata in abiti tradizionali maschili con tanto di sombrero ma volto truccatissimo.
Sempre grazie a The Open Reel, è possibile vedere a questo link il dramma sospeso “Noches de espera” (“Notti di attesa”) di Tiago Leão su quattro ventenni madrileni sperduti e frustrati che trascorrono le loro serate a base di droga, sesso anche brutale e stordimenti in discoteca. Con un umbratile stile documentaristico da cinéma vérité e varie scene naturalistiche ai confini dell’hard, il regista cerca la massima spontaneità nei suoi personaggi – una prostituta trans, una lesbica che tradisce la propria fidanzata, un ragazzo gay promiscuo, un etero insoddisfatto – tratteggiando un ritratto cupo e quasi nichilista di una generazione priva di bussola e senza progettualità che ha dimenticato la gioia spensierata e creativa della movida madrilena più almodovariana. (Roberto Schinardi, Gay.it)
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