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CRITICA:
Un documentario controverso e di non facile visione, ricco di spunti su cui riflettere. Primo fra tutti il filo conduttore e motivazione sottostante la realizzazione di questa “cartolina al papi”: il tema della pedofilia e degli abusi sessuali in famiglia. Il film infatti è un’autobiografia del noto regista tedesco Michael Stock, fresco di Berlinale, il più piccolo di tre fratelli, che ha subito le violenze sessuali del proprio padre in giovane età.
L’argomento è già scottante di suo, soprattutto in un momento in cui in Italia il dibattito su binomio pedofilia/omosessualità è più che mai acceso. Il regista e protagonista di Postcard To Daddy dichiara subito quali sono le proprie intenzioni: raccontare la propria esperienza per liberarsi dei vecchi fantasmi e tentare una riconciliazione con suo padre dopo molti anni. Questo videomessaggio dunque ripercorre l’esperienza traumatica di Michael Stock, che racconta di come suo padre lo facesse sentire colpevole di averlo sedotto, di come aspettasse i momenti in cui restavano da soli in casa per abusare di lui, di come usasse la scusa dell’educazione sessuale per violentare il figlio e di come quest’ultimo abbia ripetutamente tentato il suicidio senza che nessun altro membro della famiglia si rendesse conto di nulla. Fino a quando la famiglia si sfascia e il giovane Michael trova il coraggio di raccontare tutto a sua madre. Mentre la sorella decide di tagliare definitivamente i ponti col padre e il fratello Christian sceglie invece di mantenere i contatti, lui si rifà una vita e una famiglia e non sembra mostrare alcun segno di rimorso o di pentimento. Nel frattempo Michael comincia consapevolmente a gettar via la sua vita, forse per autopunirsi o per aver altro dolore a cui pensare, per non affrontare la sua esperienza. Fa uso di sostanze stupefacenti, beve, si macchia la fedina penale e mantiene una condotta piuttosto promiscua, nel desiderio cosciente di volersi dare totalmente agli altri, di essere sottomesso. Come conseguenza di tutto ciò, nel fiore degli anni, risulta sieropositivo.
A questo punto ci si aspetta che Michael riservi parole dure nei confronti del padre, che non voglia più avere nulla a che fare con lui, dal momento che gli ha rovinato la vita. E invece no. Sembra piuttosto commiserevole nei suoi confronti, realista ma gentile, come se lo sollevasse dal peso di quell’ignobile colpa, come se volesse soltanto dimenticare e far dimenticare anziché punire. Ci racconta tutto ciò attraverso alcune clip dei suoi primi film e dei suoi filmati personali. Lo spettatore capisce che a farlo riflettere è il rapporto difficile che il suo compagno Rémi, al quale è dedicato questo documentario, ha con il proprio padre. Lo vede diventare un fanatico religioso a causa del senso di colpa e infine suicidarsi. Si rende dunque conto che non ne vale la pena di perdere il proprio padre per l’incapacità di perdonarlo e intraprende un percorso di riconciliazione.
All’interno di questa “cartolina” trova molto spazio sua madre, che in principio si era colpevolizzata dell’accaduto, ma poi ne ha fatto un punto di forza e ora lavora come psicologa per persone che hanno vissuto la stessa esperienza.
La televisione tedesca anni fa ha chiesto a Michael Stock di realizzare un film sul tema dell’abuso minorile e lui ne ha approfittato per prendere spunto dalla propria esperienza. Emerge qui un altro aspetto controverso della vicenda, che qualcuno userebbe come argomento a proprio favore oggigiorno. Nel film che Stock aveva realizzato, il protagonista superava i propri traumi e riusciva a svincolare la violenza dalla sessualità e a vivere dunque un’intensa storia d’amore. Facendo riferimento al proprio vissuto, tale storia d’amore è omosessuale. La televisione tedesca approva il progetto, ma richiede che questo dettaglio venga cambiato, in modo da non veicolare il messaggio che chi subisce abusi in giovane età poi diventa gay. Il regista acconsente, ma spiega comunque le proprie posizioni.
Nessuno comunque sembra capire questa volontà di riconciliarsi col padre. Sua mamma, i suoi fratelli, i suoi compagni sembrano non approvare, ma comunque rispettare il suo punto di vista. Cosa che invece risulta difficile forse allo spettatore, che osserva la vicenda con occhi esterni e inconsapevolmente formula un proprio giudizio.
Una delle parti più difficili da guardare e da capire di questo documentario è l’intervista finale che il regista fa a suo padre, il tono comprensivo e quasi succube dell’uno e privo di rimorsi dell’altro.
Michael Stock comunque, nonostante ciò che ha dovuto subire e tutto il dolore che si è autoinflitto, appare come una persona fragile ma a proprio agio con se stessa, solare e intraprendente, forse perché gli è stato amaramente somministrato il dono di apprezzare la vita fatta di piccole cose. I suoi occhi azzurri ti penetrano nell’anima e ti raccontano in silenzio tutto ciò che hanno dovuto vedere e tutte le cose che desiderano vivere.
Non si esce dalla sala senza riflettere. Su se stessi, sul mondo, sulla vita e sull’assurdità di certi argomenti che dovrebbe ammutolirsi di fronte ad un’infamia così orribile. Infatti in Germania, come ci ha raccontato il regista, il documentario ha scatenato una serie di discussioni, che verranno portate avanti per tutto il 2010. Michael Stock si è stupito della poca affluenza e ci ha domandato a cosa fosse dovuta. Forse troppo triste ridurla a una mera questione di orario (22.30), i presenti hanno parlato di coraggio: forse l’Italia non è ancora pronta a vedere e parlare di un dolore così grave in un modo così diretto e autentico.
Tanti complimenti al regista, ma soprattutto alla persona di Michael Stock, senza commiserazione e senza pena, con un senso anzi di ammirazione: non deve essere facile sopravvivere a una simile esperienza e trovare poi la forza di mostrare senza pudore le proprie lacrime, raccontare la propria vita senza censure, e infine avere anche l’umanità di perdonare. (Gaia Borghesi)
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