Varie
RECENSIONI:
Uno junior che odia i suoi capelli ricci, come il padre, morto ammazzato. Allora li vuole stirare (per la foto annuale della scuola) e così agita la mamma che pensa a un ragazzino già gay e se ne vuole liberare. Ritratto di un’adolescenza difficile nel Venezuela di oggi, in una famiglia disastrata dal neo realismo dei poveri ma dove c’è ancora una nonna capace di allegria e simpatia.
Il bellissimo film di Mariana Rondon è un avvertimento sulla diversità in un contesto povero e faticoso, tra i fabbriconi incubo di Caracas. Una storia esemplare che finisce con la testa rapata a zero, pronta al desiderio della maggioranza, ma è anche un riflettore acceso sulla spiacevole relazione di un amore materno mai sfociato ma senza sposare la causa del melodramma familiare ma tenendosi ad equa distanza protettiva sociale. (M. Porro, Corsera – voto 7,5/10)
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Arriva a Torino con un buzz importante alle spalle, Pelo Malo, dopo aver vinto la Concha de oro come miglior film al Festival di San Sebastian. Premiato da Todd Haynes, il film scritto e diretto da Mariana Rondón può sembrare un semplice coming-of-age dal plot: e invece Pelo Malo non è affatto il vostro ordinario coming-of-age, anzi…
In una megastruttura abitativa della periferia di Caracas, Junior, nove anni, vive con la giovane madre Marta, vedova e disoccupata. I rapporti tra i due sono tutt’altro che amorevoli: a disturbare Marta è l’ossessione del figlio per il proprio aspetto; dal canto suo Junior vorrebbe soltanto potersi stirare i capelli, crespi e scarmigliati, così da fare bella figura nella foto di classe.
Per Marta, però, impegnata nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, i vezzi del figlio risultano intollerabili, tanto da arrivare ad accusarlo di ambiguità sessuale. In un crescendo di soprusi e incomprensioni, Junior si troverà a dover affrontare in modo doloroso le frustrazioni della madre, resa cieca dalla sua stessa vulnerabilità.
Non un semplice coming-of-age, si diceva. Perché innanzitutto qui c’è una città cattiva e difficile che imprigiona sentimenti, rapporti e gender. La Rondón non ha alcuna intenzione di creare un mood sognante o rarefatto, alcuna volontà di creare atmosfera, ma vuole semplicemente lavorare sulla realtà: carpendo quelle terribili verità che bastano e avanzano per costruire storia e personaggi.
Di conseguenza senza vezzi o arzigogolii stilistici, la regista tira fuori un prodotto secco, “vero”, forse anche sporco e grigio, e che sa trasmettere tutto il disagio di una nazione e di una cultura. Perno centrale della vicenda è il rapporto tormentato fra una madre sempre in bilico fra violenza e tenerezza e un figlio che non può trattenere le sue prime “pulsioni” omosessuali.
La situazione è di quelle davvero disastrate. Non solo la madre è vedova e disoccupata (prova a riprendersi il lavoro da sorvegliante dal quale è stata licenziata), ma c’è di mezzo pure una nonna disposta anche a pagare per poter allevare un bambino (la nuora ha un altro figlio oltre a Junior, e alla nonna ne basta uno qualunque).
Non proprio uno scenario idilliaco. Il contorno è sempre quello di una città dominata dalla violenza, in cui si può essere uccisi da un momento all’altro. Incredibili a questo proposito le riprese in esterni sul vicinato, e pazzesco il lavoro sul sonoro del caos cittadino, con spari ogni due per tre. Lo sguardo della regista è di quelli autentici, tipico della persona che sa usare il mezzo e sa quel che dice.
In mezzo a questo quadretto, Junior s’impunta nel voler scattarsi una semplice fotografia con i capelli lisci e un vestito da cantante. Intanto la madre si chiede se la sua presunta omosessualità non nasca a causa del rapporto che ha avuto e che ha con lui: le motivazioni di un medico per rassicurare la madre e riportare il bambino sulla “retta via” sono ancora più agghiaccianti… Voto: 7.5 (Gabriele Capolino, cineblog.it)
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Un diavolo per capello. Mai detto fu più vero nel caso di Junior (Samuel Lange), la cui terrificante ossessione è il pelo crespo, indomabile e poco di moda che il papà gli ha lasciato in dote. Il bambino cerca in tutti i modi di aggiustarlo: phone, mayo, olio, le prova tutte lui. Non fosse altro perché il capello liscio gli aprirebbe le porte – ne è sicuro – dello showbiz. Il suo sogno è fare il cantante. Ma i desideri di Junior non sono compatibili con una città come Caracas, dove se sei nato maschio devi tirare fuori gli attributi, ambire a una divisa, e magari farti ammazzare, com’è successo a suo padre. La madre, Marta (Samantha Castillo), lo sa bene, ma teme di più lo stigma sociale. Non tollera gli atteggiamenti effeminati del figlio, le vanno di traverso tutte quelle mossette equivoche, il ballo e il canto, e il tempo che passa in bagno, allo specchio, disperate manovre da parrucchiere. Quasi quasi lo “gira” alla suocera (Nelly Ramos), disposta a pagare profumatamente la compagnia del nipote, per quanto “diverso” sia.
Il pezzo forte di Pelo malo – già vincitore del San Sebastian, in concorso a Torino e in cartellone al prossimo Tertio Millennio – è questo rapporto complicato, aspro e sfibrante tra madre e figlio, che Mariana Rondon (anche sceneggiatrice) delinea con sorprendente finezza e intensità. Attenta a tutte le sfumature psicologiche e sociali del caso, e potendo contare su una coppia di attori meravigliosamente partecipi, la regista venezuelana ha il merito di non sottolineare mai nulla (fino alla fine non sapremo mai se Jurior ha davvero certe tendenze o semplicemente cerca l’attenzione della madre), di trattare questa vicenda familiare con delicatezza e insieme con durezza dolorosa, brava soprattutto a cogliere nella privazione del tatto – Marta praticamente non tocca mai suo figlio, a differenza dell’altro figlio più piccolo – il nodo gordiano del conflitto. Qui non ci sono buoni o cattivi, perché se Junior è pura e disarmante richiesta d’amore, Marta è una donna con la divisa (faceva la sorvegliante), che ha perso il marito troppo presto e che ora deve darsi da fare perché questa vita non spazzi via anche lei e i figli.
Ma Pelo malo va oltre, e ci lascia scorgere dietro questa figura femminile dominante (rivedersi la scena in cui adesca e manovra come vuole un giovane amante occasionale) il profilo di una cultura matriarcale che si autoalimenta nella privazione del maschile: tutte le donne del film non hanno un uomo accanto, o perché inaffidabili o perché rimasti uccisi, e la cosa interessante è il nesso – abilmente suggerito dalla Rondon – con l’adorazione quasi religiosa per il capo supremo della nazione, il padre Chavez (sono i giorni del suo ricovero in ospedale: non ne uscirà più).
Di grande impatto è anche lo sguardo sulla città, o meglio il modo in cui la città aggredisce lo sguardo, con i suoi sinistri reticolati, le sbarre alla finestra, le vie congestionate, gli appartamenti fatiscenti, attaccati l’uno all’altro, da togliere il respiro. Un degrado urbanistico che opprime i personaggi non meno dei rischi e delle minacce che incombono ovunque, continuamente, le possiamo avvertire.
Spari fuori campo e bambini che li fanno diventare la colonna sonora dei loro innocenti giochi “alla guerra”. Questo, signori, è vero neorealismo. (Gianluca Arnone, Mtv.it)
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Caracas, giorni nostri. Junior ha nove anni e una voglia matta di stirare i suoi capelli ricci, una caratteristica fisica che lo rende troppo diverso dagli altri. Sogna una chioma normale per poter ben figurare nella foto tessera che gli serve per l’iscrizione a scuola e anche per entrare nel dorato mondo dello showbiz. Nessuno però sembra volergli dare una mano, né la nonna, una signora eccentrica che pur di averlo con sé, ed evitargli la fine del padre, ucciso, è disposta ad accettarne la ‘diversità’, né la madre, vedova e disoccupata. Marta non riesce proprio a comprendere quel figlio particolare che ogni tanto si mette a ballare, ossessionato dallo shampoo e dal phon, così dirotta tutte le sue attenzioni sul secondogenito, allontanandosi progressivamente da Junior, disprezzandolo per la presunta omosessualità. Non è un film di immediata decifrazione Pelo Malo, diretto dalla venezuelana Mariana Rondòn, presentato in concorso alla 31.ma edizione del Torino Film Festival e vincitore a San Sebastiàn; alla rappresentazione accurata di un ambiente sociale povero e degradato in cui si muovono i personaggi, non corrisponde la stessa attenzione nella “descrizione” del loro mondo interiore, quasi fossero denotati solo ed esclusivamente dalle loro azioni. In questo modo perdiamo di vista l’aspetto centrale della storia, ossia la ricerca di identità da parte di Junior e, successivamente, il rapporto con una madre anaffettiva e giudicante che lo considera un oggetto misterioso, un alieno da respingere. Riusciamo raramente a entrare nel mondo del ragazzino dai capelli ribelli, che la Rondòn finisce per mettere in secondo piano rispetto alla madre manipolatrice, odiosa e fredda.
Manca quel pathos, quell’empatia che ci facciano sentire la stessa sofferenza di Junior e non è una mancanza da poco in un film che invece dovrebbe essere tutto concentrato sul piccolo protagonista (Samuel Lange) e che si allontana più volte da esso proponendoci come oggetto di studio una donna (Samantha Castillo) dai comportamenti irresponsabili e odiosi, fortemente castrante e sorda alla richiesta d’amore del figlio. Costruire una sceneggiatura mettendo in dubbio l’amore materno, sottolineando come certe relazioni non siano automatiche, è una scelta intelligente e non scontata, che avrebbe dovuto essere sostenuta da una diversa e più profonda attenzione al bambino. Junior è un figlio dimenticato, di cui nessuno si interessa davvero, che viene abbandonato dalla mamma come fosse un pacco, che viene intimamente violato, perché gli adulti decidono tutto per lui, senza ascoltarlo. Questo grumo, questo aspetto di profonda tragicità emerge raramente dal flusso del racconto orchestrato dalla Randòn che mostra la vicenda senza interpretarla, senza darle il giusto spessore. Il film quindi non convince appieno, sebbene riesca a restituire in pieno la desolazione e la povertà di un certo ambiente superstizioso e ignorante, in cui i rapporti di forza tra le persone vengono stabiliti solo in base all’utilità. Qui lo sguardo della Rondòn è realistico senza essere didascalico. (Francesca Fiorentino, Movieplayer.it)
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Bad Hair is a riveting and gripping domestic drama that simmers to a boil and it is heartbreaking in many ways. Rondon manages to capture both the wide-eyed innocence of childhood and the grating sound of that innocence scraping against the harsh realities of economically oppressive urban life. The filmmaker manages, remarkably, to generate empathy for each character in turn. As much as you want to hate Marta for grinding her child’s spirit, her concerns are real and practical.
However, as much as I enjoyed Bad Hair it felt incomplete in the end. Both Marta and grandma conclude that Junior is probably gay, which feels like an easy solution for the characters and filmmakers alike. Too many stones are left unturned here. Junior’s father, a black man and presumably the source of his curly “bad” hair, seemed like a potential well of meaning that no bothers to explore. I found myself reading Junior’s obsession with straightening his hair more as a desire to look more like his mother and less like his father; more a bid to win his mom’s withheld affection than an indicator of his sexuality. While the film makes feints in this direction early on, it abandons that train of thought by the end.
Still, Bad Hair is moving and affecting and you’ll feel the sharp sting of tears at the final, heartbreaking shot. This is definitely worth a festival pass. (Brandy dean, prettycleverfilms.com)
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A tendency toward over-shaky handheld lensing subsides as the story settles down and the characters become clear. Marta (Samantha Castillo) cleans rich people’s homes, but she’s not cut out for that kind of work: She’s a security guard recently laid off for an unspecified infraction, and she’s become increasingly desperate to get her old job back. Some of her anxiety stems from the fact that she has two kids to feed, 9-year-old Junior (Samuel Lange) and an infant boy. But much of Marta’s stubborn anger is part of a larger comment Rondon is making about power and violence in Venezuela’s crumbling society, symbolized by the role security guards play in enforcing illusory notions of stability.
Junior’s individuality doesn’t jive with Marta’s belief in strict male-female modes of behavior (though she’s in a nontraditional line of work for a woman). His constant fussing with his tightly curled hair, which he’s desperate to have straightened, and general obsession with the mirror are a major source of friction between mother and son. Paternal grandma Carmen (Nelly Ramos) is far more indulgent, encouraging the boy to sing like her idol, 1960s Venezuelan pop singer Henry Stephen, even sewing a mod costume so Junior can perform. Marta’s exasperation clashes with Carmen’s desire for the boy’s companionship, fueling the power struggle between the two women.
Rondon (“Postcards From Leningrad”) does a superb job of handling Junior’s embryonic instincts, partly manifested by a pre-sexual attraction to a kiosk vendor he spies from his window. He’s too young, of course, to identify what he’s feeling, but Junior dances to a different beat, literally expressed in a lovely short scene in which his moves contrast with the hip-hop spins of some other kids. Less successful is a sequence in which Marta misinterprets a doctor’s advice about “normal” role models and makes certain Junior sees her having sex. Marta’s a lousy, mixed-up mother, but she’s not an idiot, and the incident goes beyond the plausible.
Hugo Chavez’s soon-to-be fatal illness is always in the background, gleaned from news snippets hinting at the country’s unraveling. City streets are painted with a distinctly Chavezian jumble of the Marxist Bolivarian Revolution and a bread-and-circuses type of Christianity; meanwhile, the poor are trapped in a failed ideology. Marta and family live in an enormous, dilapidated apartment block, a symbol of everything wrong with unsupported public housing. Junior and his plucky best friend (Maria Emilia Sulbaran) spend hours playing visual games as they look out at the spectrum of humanity presented on the disintegrating balconies across the way, a safer place than the streets, where gunshots are common and fear of rape is used as a standard cautionary warning.
Though Rondon had a script, she never showed it to the cast, preferring to work with them through improvisation. The results are a testament to the skills of all concerned, and performances are uniformly strong, from Lange’s Junior, struggling with his identity while yearning for his mother’s love, to Castillo’s Marta, wound up and lacking guidance yet unwilling to lower her guard. There’s a terrific moment when she has sex with a swaggering guy, briefly succumbing to the moment but then ensuring she’s in control, and reducing the man to sheepishness once she discards him.
Visuals by Rondon’s regular d.p. Micaela Cajahuaringa are tighter than in previous collaborations, maintaining a tense intimacy that contrasts with glimpses of the threatening world outside. For Junior, safety resides neither inside nor out, though he knows he stands a better chance if he can just win Marta over to his mode of self-realization. (Jay Weissberg, Variety.com)
L’ho visto con i sottotitoli. L’ho trovato poetico anche se a tratti duro. Struggente il rapporto madre figlio, bravissimo e molto espressivo l’attore che interpreta il bambino Junior. Il finale non mi è piaciuto ma era quasi scontato andasse il quel mondo