Il rapporto tra due amiche palestinesi, Inam e Lara, emigrate in Inghilterra poco più che adolescenti per scappare da un futuro indefinito annunciato da un presente barcollante, nasce nella ambiguità delle prime esperienze sessuali della giovinezza, delle sensazioni che somigliano a quelle di un’amicizia quasi fraterna e che invece si scoprono ben presto essere più della semplice amicizia. L’attrazione che si trasforma lentamente in amore, la voglia di scoprire la propria sessualità e sensualità, trasportano Inam e Lara in una relazione clandestina da cui le due ragazze non capiscono bene cosa vogliano davvero. La libertina Inam non si crea alcun problema ad avere altre storie con uomini, mentre per Lara il sesso e i sentimenti sembrano quasi impossibili da scindere. Eppure entrambe non sono così prevedibili come sembra, la profondità dei due personaggi presentati in Odem (Lipstikka) è di sicuro una bella sorpresa per chi dopo le prime sequenze, pensava di aver già previsto le loro azioni e predetto l’intreccio imbastito da Johnatan Segal. È una sceneggiatura molto ben costruita quella creata dal regista di origini canadesi. Una scrittura intensa che mantiene la tensione insolitamente alta per un dramma di sentimenti, molto più adatta a un thriller psicologio. Una scrittura poco verbosa, non serve con dei volti così espressivi come quelli di Nataly Attiya e Clara Khoury, perfettamente calate nei ruoli. La prima, con la sua bellezza naturale e irriverente, la sua prepotenza erotica in ogni singolo gesto (anche quando il racconto è ambientato in Israele e la ragazza non ha che sedici sfrontatissimi anni), sembra dominare psicologicamente l’amica, più bruttina da giovanissima, più silenziosa, più riflessiva, sempre più malinconica anche da adulta. Ma di una forza inimmaginabile una volta diventata donna,impossibile da scalfire nella sua sicurezza, nella certezza della sua vita borghese conquistata con il cervello molto più che con il cuore.
Gli scontri faccia a faccia fra le due protagoniste sono le parti migliori di questa storia intima, girata in gran parte nella casa di Lara soprattutto quando gli eventi narrati sono al presente. Un ambiente ordinato, un appartamento che è un po’ il guscio della donna, in cui è lei a essere la personalità dominante, condiviso con un marito che scivola tra le stanze in maniera molto insignificante, senza lasciare traccia di sé, e un bambino di sette anni, unica vera presenza innocente del film. Un ambiente quindi, per rappresentare un carattere, un altro, gli esterni diroccati e infidi del confine israelo-palestinese, per parlare invece di Inam della suo approccio al mondo circostante e alle persone che incrocia prima della partenza per Londra. La bellezza di Inam è la sua maschera di finta forza, ostentata in ogni passo, per mostrare agli altri di poter bastare a se stessa. È forse paragonabile ai fucili dei soldati che occupano i territori, oggetti di potere in quanto strumenti di coercizione e di superiorità, in realtà solo estreme armi di autodifesa per uomini impauriti attorno ai quali crolla tutto, sia fisicamente che moralmente. Simbolicamente molto profondo, il dramma di Segal è capace anche di sorprendere con un colpo di scena finale che mostra il vero lato della personalità delle due protagoniste. Inam e Lara per tutti gli anni trascorsi insieme, non hanno mai veramente iniziato ad amarsi, ma in qualche modo non hanno neanche mai smesso di farlo. È un amore irragionevole e molto più probabilmente irrazionale, come tutti gli amori in fondo sono. Un amore che conduce alla follia e che per follia e probabilmente una buona dose di masochismo, viene ancora alimentato anche in condizioni impossibili. (Gaetano Maiorino, Cineclandestino.it)
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