Post coitum, anima(l) triste. Avevamo lasciato Joe alla fine di Nymphomaniac – Vol 1 dopo l’ennesimo amplesso selvaggio – non vi diciamo con chi – e la ritroviamo all’inizio del seguito incinta di suo figlio Michel e insensibile al piacere sessuale, si direbbe per overdose fornicatoria. Anche qui un’avvertenza spiega che Lars Von Trier ha accettato i tagli imposti dalla produzione ma non ha contribuito minimamente al montaggio. Nel secondo, livido volume, costituito da tre capitoli e un sottoparagrafo a sorpresa dal titolo ‘Gli uomini pericolosi’, si affrontano le responsabilità di Joe come madre – l’attrice non è più Stacy Martin ma Charlotte Gainsbourg che continua a narrare al professor Seligman le sue (dis)avventure erotiche, Jerôme è prima Shia Laboeuf e poi il magnetico Michael Pas – ma soprattutto la sua ossessiva ricerca del piacere mentre il corpo sembra aver perso ogni capacità reattiva. Rispetto alla prima, più ironica e leggera, la seconda parte è una cupa, decolorata, fosca discesa negli abissi emotivi della parafilia tassonomica: sadomasochismo ritualistico presso un giovane master esperto in bondage (scena bella e ipnotica con un Jamie Bell raggelante); fisting animalesco (scopriamo la tecnica penetrativa dell’Anatra Silenziosa); arditi terzetti con mandinghi loquaci; pissing fumante e via dicendo. È un peccato che in questo calderone dal fascino oscuro ma onestamente un po’ delirante ci finisca anche la passione lesbica di Joe che, ormai incapace di soddisfare la sua sfrenata ricerca edonistica con i maschi, s’innamora di una giovane giocatrice di basket detta “P” (una diafana Mia Goth) che mette sotto la sua ala in realtà con uno scopo inizialmente malvagio – Joe si è legata alla criminalità organizzata – ma che diventa una specie di amorevole figlia/amante a cui Joe cerca di trasmettere la passione per la botanica che era di suo padre. Il problema è che mescolando il tutto attraverso uno stile originale che Von Trier ha definito “digressionista” con divagazioni che si intersecano tra di loro, lo spettatore è indotto a mettere tutto sullo stesso piano, cosicché l’amore saffico sembra una sorta di perversione pulsionale più che una condivisione di affetti. Si sospetta così una sorta di “impotenza etica” del regista-demiurgo che semplifica il tutto in un giochino matematico-combinatorio in cui i vari personaggi non sono altro che delle pedine che il regista manovra a suo piacimento. Non c’è un unico personaggio positivo, non c’è alcuno sguardo di speranza o commiserazione, non c’è empatia emotiva ma solo provocazione intellettuale a volte un po’ sterile e il nichilismo misantropo alla fine spiazza via tutto, persino lo sguardo morboso dello spettatore voyeur. La visione sadiana del “puro e semplice libertinaggio non criminale” del marchese parigino si sposta quindi verso un indifferenziato sadismo. Più interessante è la parte che riguarda la religione, con le riflessioni di Seligman sulla contrapposizione tra Chiesa dell’Est e dell’Ovest, ossia piacere versus senso di colpa, in pratica il conflitto interiore che dilania Joe e le impedisce di vincere la sua dipendenza sessuale. (R. Schinardi, Gay.it)
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Il Capolavoro di Un Genio!!!!!!!!