Siamo nella Francia del 1959, l’anno caldo della Guerra d’Algeria e l’intera vita sociale è segnata da quel conflitto. L’azione ha luogo in tre principali location: la casa della coppia, la dimora di montagna sulle alture dei Vosgi in cui Michel si rifugia per dar sfogo al suo lato oscuro e il cabaret dei travistiti, un locale non certo di lusso alla Madame Arthur, ma un modesto ritrovo segreto in cui si danno appuntamento i pédé della città e non solo loro. Qui incontriamo tutti i personaggi principali della storia, a partire dal 19enne di leva richiamato per andare a farsi trucidare in terra d’Africa. Molti sono gli over 50 reduci della guerra mondiale e non stupisce sentire qualcuno di loro apostrofare il biondo soldatino con l’appellativo di “aryen” seguito dal commento di “horrible!”. Nel cabaret arriva il sarto dalle mani d’oro, genio dell’ago e del filo adorato da tutte le donne del paese, al cabaret trova rifugio il manovale che fugge dall’oppressione coniugale, qui arrivano a far baldoria i tiratardi della città amanti di cha cha cha proibiti o i soldati in libera uscita sicuri di trovare una bocca marcata dal rossetto dove scaricare le fatiche, le tensioni e tutto il resto.
La casa coniugale è il cuore del rapporto tra i due consorti, un nido ordinato simbolo della classe sociale di appartenenza e dello stauts del benessere raggiunto. Hélène ne è la regina assoluta e la cura come una reggia, Michel ne vive i vantaggi; ma è una casa senza una vera luce e un autentico calore. La casetta sui Vosgi è il luogo della libertà dove il notaio si ritira a fare esercizio di femminilità con l’amico e complice Jean-Marie che diventa Flavia quando si veste e si trucca al femminile.
Quando il soldatino è costretto a disertare diventa anche il suo rifugio, tetto comune per lui e per tutta la “banda” dei travestiti in fuga dalla città: Callipigia, Fée, Susy e le altre, tutte pronte a sottoscrivere e a rispettare il decalogo del perfetto travestito in una delle scene più divertenti del film. Intorno a tutti loro il fantasma di una guerra lontana ma presentissima negli effetti sociali ed economici. Guerra guerreggiata più guerra di emozioni personali a cui il film offre diverse soluzioni, tutte nel nome dell’affermazione della libertà e dei valori della vita contro quelli della violenza e della morte. Un film che fa politica autentica senza fare politica proclamata.
Non possiamo far a meno di citare la magnifica carrellata dell’epilogo che arriva nel finale durante il titolo di coda. Mentre un magnifico travestitone canta la struggente canzone di Kurt Weill “Yukali” in cui si vagheggia un immaginifico paese di libertà (Yukali – il paese dei miei sogni,/ Yukali – solo felicità e sogni d’oro,/ Yukali – la terra dove non c’è traccia delle nostre preoccupazioni,/ Dove una notte tu sei vicino a me,/ Dove le stelle si amano) un’unica ripresa comprende ancora una volta tutti i protagonisti del film: l’etero che si trova meglio fasciato da un abito lungo con spacco inguinale, il gay che vive l’abito femminile come un stato di identità con cui presentarsi, il trans che aspetta solo il momento giusto per affidarsi ai ferri del chirurgo, l’artista che solo “truccato” trova modo di sfogare appieno i suoi talenti. Non un solo perché al travestitismo ma tanti tipi di travestitismi quanti sono i travestiti, tanto che viene da chiedersi, parafrasando il soggetto del film di apertura a Venezia 71: di che cosa stiamo parlando davvero quando parliamo di travestitismo? (Sandro Avanzo)
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