Questo bellissimo e importante film, scelto per inaugurare il Roma Film Festival 2016 e vincitore dell’Oscar come miglior film dell’anno, potrebbe avere la forza propulsiva che ha avuto Brokeback Mountain nella crescita della consapevolezza sociale dell’omosessualità.
Pieno di poesia e tenerezza, senza mai essere lacrimevole, ci racconta la vita di Chiron, un ragazzo gay e nero che cresce nella Miami dei bassi fondi.
Il soggetto è ricavato da un’opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, “In Moonlight Black Boys Look Blue”, che l’ottima regia di Barry Jenkins (ha impiegato sette anni a realizzarla dopo il suo esordio con “Medicine for Melancholy”) trasformando un racconto non lineare in un’ammaliante opera cinematografica composta da tre parti che racconta nella prima il bambino (Alex Hibbert), poi l’adolescente (Ashton Sanders) e infine l’appena l’adulto Chiron (Trevante Rhodes).
Ogni stadio della vita di Chiron ha un interprete differente, ma noi quasi non ci accorgiamo del cambio: gli stessi tic verbali, movimenti delle mani, palpebre abbassate, ecc., e tutti sono bravissimi a farci esplorare l’anima del tormentato e solitario protagonista.
Chiron è timido, più piccolo ed esile dei coetanei (che infatti chiamano ‘little’ quando non ‘finocchio’), vittima di bullismo a scuola e quasi ignorato dalla madre che si droga. A nove anni viene soccorso dal capo degli spacciatori locali, Juan ( Mahershala Ali ), che lo prende e porta a casa dove la sua ragazza, Teresa, gli dà da mangiare.
In una bellissima scena Juan gli insegna a nuotare. Chiron ha così paura di perdersi quei momenti di felicità che non rivela dove abita. Juan è come un padre per lui. Quando gli chiederà cosa significhi “frocio”, Juan gli risponde dicendogli che è una parola usata per far star male le persone omosessuali.
Come adolescente Chiron deve soprattutto vedersela col bullismo e l’omofobia, sempre più aggressiva, che impera in una società maschilista.
Scopre che sua madre oltre a drogarsi fa anche la prostituta. Riesce a sopportare tutto solo nascondendosi, dentro e fuori da sé. La società lo costringe a presentarsi per quello che non è. Ma la vita gli offre un amico, Kevin, l’unico che può comprenderlo e che lo sta ad ascoltare (sebbene Chiron parli pochissimo). Nell’adulto Chiron, ormai uno splendido e forte uomo, lo scopriamo più lucido e consapevole, ritorna Kevin che gli cambia nome, c’è ancora la presenza della madre, e ancora una volta il passato si scontra con il presente aiutando Chiron per un nuovo e definitivo cambiamento.
Sono infiniti i problemi che Chiron ha dovuto affrontare e un’attenta sceneggiatura li mantiene tutti allo stesso livello, senza permettere prevaricazioni, dando all’insieme un perfetto equilibrio.
Il film si presenta alla fine come una tragedia greca in tre parti, con l’eroe che pian piano emerge, poi compie una profezia e alla fine scopre che il suo vero nemico è sé stesso.
Quando il film rischia di diventare didattico, una mirabile regia lo riempie di immagini e significati, che ci riempiono ugualmente il cuore.
Un’opera, ha detto la crititca, che sembra aver preso il meglio della tecnica rappresentativa di Andrew Haigh e di Richard Linklater rafforzandola col sensualismo estetico di Wong Kar-wai e Pedro Almodóvar.
Scusate se è poco.
Fa sicuramente bene alla causa LGBT e la sua vittoria agli Oscar 2017 è stato un bello schiaffo all’America omofoba e razzista dei nostri giorni. Però mi è sembrato un premio eccessivo. Il film è un po’ troppo lento e lungo, la trama molto semplice e debole, riempita da scene lunghe e dialoghi piatti. Il finale mi ha sorpreso, arrivato in fretta e senza molta convinzione.
bellissimo e tenero e non volgare.