Definito dalla critica (che l’ha visto in anteprima mondiale alla Berlinale 2016) un ‘piccolo capolavoro’, definizione assegnata assai raramente ad un documentario, “Mapplethorpe” dei registi Fenton Bailey e Randy Barbato (ormai esperti in approfondimenti hard, vedi l’ottimo “Inside Deep Throat”) arriva sugli schermi italiani grazie all’encomiabile distribuzione Wanted. Come dice bene il titolo originale, “Mapplethorpe: Look at the Pictures” il film non si limita a raccontarci, attraverso interviste recentemente scoperte e la testimonianza di amici, amanti, familiari, celebrità e modelli, la storia di uno dei più originali fotografi del ‘900, ma soprattutto ci accompagna ad esplorare, attraverso le sue opere, i sentimenti e le sensazioni più intime dell’uomo Mapplethorpe. Che è stato un catalizzatore ed un illuminatore, ma anche una calamita per gli scandali. Fin da giovanissimo Mapplethorpe si è posto un obiettivo che ha costantemente perseguito: ‘costruire’ non solo come artista ma anche come personalità, persona. Per fare questo non avrebbe potuto scegliere un periodo migliore: la Manhattan della Factory di Warhol, dello Studio 54, dopo i moti di Stonewall, un’epoca di sfrenata edonistica sessualità. Mapplethorpe, nato nel 1946, era il terzo di sei figli cresciuti in una famiglia cattolica che andava a messa ogni domenica. Già al liceo era un outsider e decide presto di allontanarsi da casa per andare a vivere a New York, dove impara l’uso della polaroid comprendendone le potenzialità artistiche. Inizia il sodalizio con Patti Smith ma scopre anche le riviste porno-gay ed inizia subito una relazione omosessuale. Nella sua prima mostra del 1976 sono già presenti i suoi soggetti preferiti: raffigurazioni erotiche, fiori e ritratti. Guadagna notorietà attraverso una serie di fotografie sessualmente esplicite della scena gay sado-masochistica e con ritratti di uomini nudi neri. Possiamo vedere l’artista che parla candidamente di se stesso e nello stesso tempo comprendere come le sue fotografie non fossero solo arte, ma vita, la sua vita. Le sue immagini sono ‘pornografiche’ perché la sua vita era ‘pornografica’, cioè essenziale, a volte anche ridicola, superficiale, come può essere la vita vera, quotidiana. Così possiamo comprendere come per l’artista uomo poteva non esserci nessuna differenza tra un pene eretto ed un calice che attende di essere raccolto. I registi non hanno avuto timore nel presentarci una figura che poteva apparire eccessiva sia nella sua arte che nella sua vita, spesso anche manipolatore, implacabile, egocentrico, restituendoci alla fine un affascinante ed indimenticabile ritratto.
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