Coraggioso debutto della 35enne israeliana Maysaloun Hamoud che con questo film si fa portavoce di milioni di giovani donne che devono combattere contro l’oppressione, il patriarcato, la misoginia, l’emarginazione e l’omofobia. Più che sulle colpe delle religioni (sia mussulmana che cristiana) il film si concentra sul machismo e sulla necessità di un femminismo liberatorio, valido in tutto il mondo. Con poche ed essenziali inquadratura la regia ci mette subito in empatia con le tre eroine, tre donne arabe che vivono a Tel Aviv, tutte in cerca della loro identità, o meglio, che stanno cercando di affermarsi in un mondo che a parole sembra aperto e comprensivo mentre in realtà vuole continuare a tracciare per loro un perimetro con dei confini invalicabili. Sono parte di un movimento sotterraneo di ventenni palestinesi che abitano le aree urbane israeliane. Il film vuole richiamare la nostra attenzione sulle contraddizioni della società colonizzatrice israeliana, divisa tra modernizzazione occidentale e tradizione medio-orientale (il titolo originale “In Between” è più esplicativo). Nella prima scena vediamo una donna anziana che elargisce consigli di buon comportamento ad una giovane sposa: dimostrarsi sempre gentile e sottomessa, avere un corpo profumato e senza peli, a letto lasciarsi guidare dall’uomo senza “fargli capire che sai il fatto tuo”. Siamo subito immersi in un mondo dove per le donne non c’è indipendenza. Leila (Mouna Hawa), alter ego della regista, è un avvocato che difende le cause delle donne, ha un bel viso, un corpo slanciato e abbondanti capelli ricci, le piace rilassarsi conoscendo uomini e frequentando i bar della scena underground della città. Condivide un appartamento con Salma (Sana Jammelieh), una giovane lesbica con piercing e tatuaggi che la madre l’obbliga a nascondere durante le riunioni di famiglia. Ha un carattere molto più calmo di Leila, quasi una necessità per sottrarsi all’oppressione sociale verso la sua omosessualità. Ha un assoluto bisogno d’indipendenza e non sopporta di essere comandata, cose che la costringono a dimettersi dal ristorante dove lavora. Adesso lavora come dj in un locale dove ha iniziato una relazione con una cliente. Dovrà subire l’ira e il rifiuto del padre quando scopre la sua omosessualità e vorrebbe chiuderla in manicomio per guarirla dalla sua malattia. Quando Nour (Shaden Kanboura), una studente d’informatica pia e velata, viene a vivere con loro, entrambe pensano che non sarà una convivenza facile, visto anche il disprezzo che le dimostra il fidanzato di Nour, fidanzato che non tarderà ad offendere sessualmente la stessa Nour. A questo punto le tre donne, nonostante tutte le loro differenze, capiranno di essere unite in una lotta per l’emancipazione. Bellissimo il sentimento di amicizia femminile che il film riesce a trasmetterci, e perfettamente giustificati i tanti premi che il film sta raccogliendo nel mondo (Premio NETPAC come miglior film asiatico a Toronto, e Premio della Gioventù al San Sebastián International Film Festival dove vince anche come miglior film LGBTI, miglior debutto all’Haifa International Film Festival, miglior film al Kosmorama Film Festival di Trondheim, Norvegia)
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Un film che fa solo bene alla causa lgbt – e ancor di più in paesi musulmani – ma che sul piano cinematografico è abbastanza scarso: lento, mal recitato, monotono, attrici mediocri.