“Con Les garçons sauvages Bertrand Mandico esordisce alla regia, spiegando di fronte agli occhi degli spettatori le ali di un immaginario sfrenato, che riesce a trovare il miracoloso punto di incontro tra reale e mitico, tra rêverie e brutalità, facendo dialogare tra loro fantasmi di Vigo e Genet, gocce di Terayama e Teshigahara, residui di cinema muto e di b-movie. Un percorso di completa alterità, per un lavoro in pellicola che lascia senza fiato, primo lungometraggio di un regista destinato (questo è l’augurio) a incidere con forza nel cinema contemporaneo.
Les garçons sauvages si apre, accompagnato dalla voce narrante che non svelerà mai la sua identità nel corso del film, con il racconto del crimine perpetrato da cinque adolescenti, provenienti da famiglie colte e facoltose: lo stupro e l’omicidio della loro professoressa di letteratura. Escono indenni dal processo, ma i rispettivi genitori decidono di temprare il loro bellicoso carattere spedendoli per mare sotto l’egida di un capitano olandese, per il quale dovranno lavorare come mozzi. La piccola imbarcazione dell’olandese deve raggiungere un’isola sperduta nell’oceano, che nasconde al proprio interno un mistero che farà loro mutare pelle. E non solo…
Il primo impatto con l’opera d’esordio di Bertrand Mandico lascia letteralmente a bocca spalancata. Bastano le prime inquadrature, il montaggio che le compone, l’utilizzo del sonoro, per rendersi conto di trovarsi a tu per tu con una creatura aliena, altera ma allo stesso tempo disposta – molto più di lavori maggiormente intessuti nel percorso accademico o istituzionale – a confrontarsi con la materia purulenta, a farla propria, a riscoprirne i riflessi meno prevedibili… Opera di ingegno puro, che rimastica immaginari assimilati nel corso di una vita cinefila senza mai farsi prendere dal demone della citazione ma piuttosto veleggiando verso lidi inesplorati, e completamente personali, Les garçons sauvages possiede una forza nascosta, tellurica e salvifica allo stesso tempo, che pulsa nel cuore con tonfi sempre più percepibili. La stessa forza che agita la natura affascinante e pericolosa dell’isola, la stessa forza che agita le vele piene di capelli della nave olandese, la stessa forza che irrompe su uno schermo dominato da contrasti, dissolvenze incrociate, retroproiezioni, trasparenti, in un elogio mai passatista ma anzi perennemente in rivoluzione del tempo che fu.
Nel cercare uno stratificato punto d’incontro che permetta ai romanzi d’avventure di Jules Verne e Robert Stevenson di dialogare con William Burroughs (ma anche con il William Golding de Il signore delle mosche), il regista transalpino pone sul tavolo della discussione un tema spesso inevaso, o forse evitato con cura per la stessa voglia di non sentirsi “fuori dai giochi”: il viaggio come elemento di trasformazione di corpi adolescenti che devono ancora trovare una loro forma compiuta. Una trasformazione non interiore – anzi, la stolidità di questi cinque ragazzi nel voler rimanere ancorati alle loro putride certezze è uno degli aspetti più interessanti della ricchissima sceneggiatura ordita da Mandico – ma epidermica: i ragazzi, sull’isola in cui tutto sembra potersi materializzare, si trasformano in ragazze. Ecco dunque spuntare i seni, e scivolare via dalle gambe l’oramai inutile pene. In un mondo dominato dalla sessualità come oggetto della dominazione, ferale orgasmo perpetuo di natura e uomo, Mandico sradica il più usurato dei concetti: l’appartenenza di genere. Tutto Les garçons sauvages appare come il continuo slittamento di un confine che è sempre superabile, oltre il quale è sempre lecito, forse persino doveroso, spingersi.
La scelta di lavorare con un cast quasi interamente femminile – le ragazze si trasformano sul set in ragazzi per poi ritornare donne nella finzione scenica – determina un’altra ala radicale del percorso di Mandico. Questa forma di erotizzazione del corpo in perpetuo mutamento è di per sé un atto politico, che serve a scardinare pezzo dopo pezzo l’ingranaggio del potere centrale; ogni gesto compiuto ne Les garçons sauvages si pone come atto di insubordinazione a un potere superiore, totalitario e in quanto tale da sovvertire. Il potere intellettuale, racchiuso nel Macbeth ridefinito per la professoressa; il potere maschile, che l’olandese esercita con metodi medioevali; il potere femminile, a sua volta in grado di porsi come letale e privo di dolcezze… Una menzione a parte la merita lo splendido cast di attrici: Pauline Lorillard, Vimala Pons, Diane Rouxel, Anaël Snoek, Mathilde Warnier, Elina Löwenson, Nathalie Richard, a cui si aggiunge l’unico uomo in scena, il capitano olandese dal pene narratore di storie, Sam Louwyck.” (Raffaele Meale, Quinlan.it)
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