Terzo film dello scrittore regista polacco Thomas Wasilewski (dopo il film gay “Floating Skyscrapers”), tutto centrato sull’universo femminile come poteva apparire subito dopo la caduta del muro di Berlino: come uscire dalla solitudine, come trovare la strada dell’emancipazione femminile, quanto può aiutare od ostacolare il desiderio sessuale. Colori freddi, come la realtà di un ambiente che è ancora prigioniero di stereotipi e castrazioni del passato, una fotografia (di Oleg Mutu, lo stesso di 4 mesi, 3 settimane, due giorni) che usa moltissimo la nudità, cercando in essa la verità delle cose e dei desideri che non si possono mai realizzare. Agata, una donna sposata con un matrimonio senza passione, cerca sempre la strada che la porta nella chiesa dove vive un giovane prete cattolico di cui è segretamente innamorata (tutti i suoi tentativi di catturarne l’attenzione vengono ignorati). Iza è la preside di una scuola che ha da sei anni una relazione con il padre di una sua alunna, ma quando la di lui moglie viene a mancare, si sente sopraffare dal rimorso. Renata (Dorota Kolak, forse l’interpretazione migliore) è un’insegnate matura (di lingua russa, ormai inutile) che s’innamora della più giovane Marzena, la vicina di casa, sorella di Iza, ex regina di bellezza, ora allenatrice di ginnastica, che ha il marito che lavora nella Germania dell’Est. Per Renata si avvicina l’occasione che potrebbe cambiare completamente la sua vita. Il suo sguardo ferito, la sua amara solitudine, quei timidi sorrisi forzati, le sue strategie per catturare l’attenzione di Marzena, sono momenti che non dimenticheremo facilmente. Sono tre storie che coinvolgono quattro donne, separate in tre capitoli ma che spesso s’intersecano, un affresco a largo spettro di una società che sta per affrontare grandi cambiamenti sociali, cambiamenti che potrebbero utilizzare anche il forte desiderio erotico che accomuna almeno tre delle quattro donne indagate, se solo riuscissero a superare quella barriera di solitudine e disperazione che le accompagna e imprigiona. Il titolo originale del film, Stati Uniti dell’Amore, suona gravemente ironico. Il film ha vinto come miglior sceneggiatura alla Berlinale 2016, e si è portato a casa ben 5 premi al Polish Film Festival 2016 (regia, montaggio, attrice non protagoniste,Dorota Kolak, attore non protagonista, Lukasz Simlat, costumi).
CRITICA:
È ambientato nella Polonia del 1990, ma potrebbe svolgersi in un ovunque indeterminato perché il vero soggetto del film, che il titolo italiano Le donne e il desiderio fa intuire solo in parte (quello originale, Zjednoczone stany miłośśsci , significa Stati uniti dell’amore , più criptico ma più evocativo), è il rapporto che le donne hanno con il loro corpo, macchina del desiderio ma anche oggetto di repressione, forza propulsiva e ingovernabile zavorra.
Privo di una qualsiasi indicazione geografica che non sia lo squallore di un periferia anonima e indistinta, il film offre allo spettatore due sole indicazioni cronologiche: si svolge dopo la caduta del Muro di Berlino e prima dell’unificazione della Germania, il cui annuncio alla radio si intreccia con vaghe ma minacciose allusioni al ruolo preponderante dell’armata sovietica. In Polonia sono terminati gli anni del comunismo di Stato, e nella prima scena, riuniti intorno a una tavola imbandita si scambiano le prove di un consumismo a portata di mano — l’aranciata Fanta, i jeans originali, le rate per il frigorifero — ma quel benessere così golosamente inseguito non sembra capace di placare le pulsioni che il corpo femminile vive ancora come vergogna o peccato (facendo così entrare in campo l’altro grande convitato di pietra del film insieme al passato comunista, e cioè la pervasività dell’educazione cattolica con quello che si porta dietro in fatto di repressione e castrazione).
Ma a differenza della prima scena, tutta parlata nella sua concitazione alterata dall’alcol, il film del 36enne Tomasz Wasilewski è costruito su silenzi carichi di significato e su una messa in scena che facendo spesso ricorso ai piani sequenza invita lo spettatore a «spiare» e «scoprire» i comportamenti delle sue quattro protagoniste piuttosto che a raccontarli e a spiegarli…
Quattro squarci sulla complessità e le contraddizioni di una vita dove le conquiste sociali non vanno di pari passo con i bisogni personali, e il corpo femminile (le ultime due scene di nudo mettono letteralmente i brividi) diventa esca e trappola insieme di una infelicità che non sa prendere le misure dei propri desideri. (Paolo Mereghetti, Corsera – voto 3,5/4)
Premiato a Berlino per la sceneggiatura, Le donne e il desiderio esce con un titolo italiano che lo fa sembrare un film erotico. Niente di meno vero, se “erotismo” è la definizione gioiosa del sesso. Qui le scene di accoppiamento non mancano; ma (a cominciare da un rapporto consumato in fretta nei bagni tra una preside e un suo ex-allievo) sono tra le più meste e deprimenti a memoria di cinema. Paragonato da taluni a Xavier Dolan, l’enfant prodige del cinema polacco Tomasz Wasilewski manca del tutto di una delle caratteristiche di cui il collega abbonda: l’umanità. I ritratti di quattro donne polacche — Agata, Iza, Renata e Mazena — sono altrettanti archetipi femminili di donne infelici e fondamentalmente sole. Rinchiudendole all’interno di oscure inquadrature dai colori desaturati, il regista trentaseienne si diverte a torturarle senza lasciarsi sfiorare del minimo senso di pietà. Benché il film pretenda di assumere il punto di vista femminile è — consapevole o meno — un caso lampante di cinema misogino. (R. Nepoti, La Repubblica – voto 2,5/6)
Un film freddo e distaccato, quasi senza sentimento, in cui alcune scene scene (soprattutto alcune di nudo, silenziose) sanno essere forti. Le quattro donne protagoniste sono tutte sole e infelici, ma in un modo oscuro, solitario. Non so se sia un film misogino, probabilmente in parte sì. L’attrazione vagamente lesbica di Renata per Marzena è un po’ patetica, frutto dell’immaginazione quasi malata della donna matura. Commovente la scena del valzer tra le due nella scuola di ballo. Un finale netto come una porta sbattuta in faccia. Tanta tristezza per il destino di queste donne.