Varie
Jackson Heights, Queens, New York City is one of the most ethnically and culturally diverse communities in the United States and the world. There are immigrants from every country in South America, Mexico, Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, India and China. Some are citizens, some have green cards, some are without documents. The people who live in Jackson Heights, in their cultural, racial and ethnic diversity, are representative of the new wave of immigrants to America. 167 languages are spoken in Jackson Heights. Some of the issues the film raises-assimilation, integration, immigration and cultural and religious differences-are common to all the major cities of the Western world. The subject of the film is the daily life of the people in this community-their businesses, community centers, religions, and political, cultural and social lives-and the conflict between maintaining ties to traditions of the countries of origin and the need to learn and adapt to American ways and values. This is Frederick Wiseman’s third film about communities, the others being ASPEN and BELFAST, MAINE. In these films, as in all his films, he is trying to present a broad and complex portrait of contemporary life. (Production)
CRITICA:
“…. Wiseman guarda. Non fa mai parte del gioco: si limita a registrare la realtà. In Jackson Heights , fuori concorso, è un pezzo di mondo, è la vita stessa che fa irruzione al cinema. Dura più di tre ore ma non smetteresti mai. Ha passato la vita a raccontare l’America. Che è un posto, come dice negli ultimi minuti del film uno degli abitanti di Queens, dove «hai un sacco di libertà, anche quella di essere maltrattato e derubato».
Quando parliamo di flussi migratori, dell’onda che travolge il tempo in cui viviamo, quando ascoltiamo esseri umani tipo Salvini in tv dovremmo avere sempre in dote una mezz’ora di Wiseman disponibile. Come antidoto. Jackson Heights nel Queens, a NY, è una delle comunità più eterogenee del mondo. 167 lingue, altrettante etnie. Senza mai entrare nel racconto, con una discrezione che si stenta a immaginare, mostra la vita com’è. Nove settimane di riprese, dieci mesi di montaggio – questo il segreto: il montaggio- per far rivivere l’associazione di gay anziani, le collaboratrici del deputato che rispondono al telefono a ogni genere di protesta, i musulmani che pregano, i commercianti latini che provano a opporsi all’apertura di Gap perché saranno sfrattati… Ci vuole un vecchio poeta in disparte per dirci il mondo in cui viviamo qual è. Non rottamiamo i vecchi, non tutti. Non corriamo troppo, la velocità da sola non basta….” VOTO: 6/6 (Concita De Gregori, La Repubblica)
——————-
Quarantadue documentari in quarantotto anni. Se si esclude qualche tappa fuori dagli Stati Uniti (La danse, Crazy Horse), il percorso tracciato da Frederick Wiseman nel corso dei decenni si muove in direzione della scrittura per immagini e suoni del grande romanzo americano. Un viaggio nel cuore di una nazione, attraverso gli stati, per mostrarne le distonie ed esaltarne i punti di forza; un viaggio che in Wiseman non si discosta mai dall’umano. Le relazioni sociali, la forbice sempre tagliente tra chi detiene il potere e chi ne subisce le conseguenze, la creazione – a volte cementificata nei secoli, a volte ben più caotica e improvvisata – di una comunità.
È il senso di appartenenza uno degli aspetti su cui la macchina da presa di Wiseman (trasformatasi nel corso degli anni in videocamera e poi in camera digitale) torna con maggiore frequenza. Non poteva essere altrimenti anche per In Jackson Heights, presentato fuori concorso alla settantaduesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Wiseman è un habitué della kermesse lagunare, ma è significativo che non abbia mai avuto l’occasione di concorrere per la conquista del Leone d’Oro, salvo ricevere nel 2014 quello alla carriera a parziale compensazione. In Jackson Heights si riallaccia, all’interno della sterminata filmografia del regista statunitense, ad Aspen (1991) e Belfast, Maine (1999); come i due titoli appena citati, lo sguardo di Wiseman si sofferma su una comunità: nel primo caso quella della città del Colorado, che vive nel contrasto tra il presente che la vede primeggiare tra le località sciistiche della nazione e il passato da centro minerario e sottoproletario, e nel secondo quella di una realtà portuale. Un’immersione nella vita quotidiana, tra gesti reiterati e discussioni sulla vita cittadina.
Jackson Heights non è una città, anche se potrebbe sembrarlo a prima vista: si tratta di uno dei quartieri che compongono la complessità del Queens, nell’area nord-ovest di New York. Con una popolazione che supera le centotrentamila unità, Jackson Heights è più abitata di Bergamo, Udine, Latina e Trento, tanto per fare delle comparazioni.
Al di là di questo, Jackson Heights non è un quartiere di New York come tutti gli altri. Nella città più cosmopolita del mondo, quest’area del Queens è la più cosmopolita: convivono in piena armonia latino-americani, italiani, irlandesi, arabi, cinesi, bengalesi, indiani. Un vero e proprio crocicchio multiculturale, nel quale si stima che siano parlate 167 lingue differenti.
In questa Babele contemporanea, la prima impressione è che lo sguardo di Wiseman si faccia improvvisamente distogliere. Laddove la messa a fuoco di un singolo aspetto aveva nella maggior parte dei casi contraddistinto il suo approccio alla materia indagata, In Jackson Heights si profila fin dalle prime inquadrature come una polifonia di voci, suoni, umori che trasudano da una popolazione rumorosa, vivace, poco incline al silenzio. Tra i colombiani che seguono trepidanti le gesta della propria nazionale durante i Mondiali di calcio brasiliani, i membri della comunità LGBT che discutono della discriminazione che ancora vivono nella città e preparano l’annuale parata (alla quale parteciperà il sindaco), gli irlandesi e gli italiani che ricordano i tempi che furono, le anziane che si ritrovano nel centro per chiacchierare, gli immigrati – alcuni clandestini – che vengono edotti alla vita cittadina, In Jackson Heights sembra disperdersi nelle vie, nei sottoscala, nei negozi e nei ristoranti.
Ma Wiseman non ha mai perso il centro del suo discorso, e si sta solo facendo trascinare dall’onda anomala di un quartiere che non assomiglia a nessun altro, in cui il popolo ha trovato una propria dimensione comunitaria che va oltre alla prassi di una nazione che ancora vive, e lo dimostrano le cronache quotidiane, un conflitto sociale. In Jackson Heights sembra un affastellamento di bizzarrie, di curiosità etniche, di radici e di appartenenze le più disparate tra loro, ma in realtà cova al suo centro il vero fulcro del discorso: la gentrificazione che, a New York come nelle altre capitali del mondo occidentale, sta rimuovendo il tessuto sociale preesistente per creare nuove città, in cui la disparità sociale ed economica trovi il suo definitivo compimento.
Anche nel Queens i grandi speculatori edilizi hanno iniziato a ricattare i proprietari degli immobili, in modo da far salire in modo esponenziale i prezzi delle case, costringendo dunque la popolazione locale – del ceto medio-basso, con grande concentrazione di proletariato – a spingersi ancora più in là, fuori dalla cerchia urbana, per trasformare Jackson Heights in un quartiere per nuovi ricchi, per la media borghesia che non può ancora permettersi i prezzi di Manhattan. Un’operazione non dissimile a quella che, a Roma, ha visto per protagonista prima Garbatella e poi il Pigneto.
Ma gli abitanti di Jackson Heights (o, per lo meno, coloro che sono consapevoli di quanto sta accadendo) non sono proni di fronte a questo ricatto sociale, e si organizzano per far sentire la propria voce. In Jackson Heights si trasforma dunque da sguardo volante su una zona di New York a riflessione a voce alta sulle radici stesse dell’America, sulle sue pretese libertà, sulla “democrazia” e tutto quel che ne consegue. Un viaggio in una comunità che rifiuta di essere inglobata dal mostro metropolitano e fa della propria ricchezza culturale il punto di forza per combattere un mostro più grande di lei e che finirà inevitabilmente per vincere. Ma è nella battaglia la sfida. La camera di Wiseman diventa suo malgrado un’arma, perché il suo sguardo non si fa mai neutrale, né asettico. Non per partigianeria, ma per adesione all’umano. Per fusione con l’umano. Perché anche la macchina digitale è retta dall’uomo, ed è l’uomo a utilizzarla. Una lezione di libertà che si dipana, come d’abitudine per Wiseman, oltre le tre ore di durata, ma potrebbe allungarsi ancora a dismisura, e non se ne sentirebbe il peso. Nei primi giorni stitici – da un punto di vista emotivo e artistico – della Mostra 2015 una boccata d’aria pura di cui si sentiva il bisogno. (Raffaele Melani, Quinlan.it)
Condividi