Orso d’Argento alla 65esima edizione della Berlinale, quinto film di uno dei registi più apprezzati a livello mondiale, il cileno Pablo Larrain, autore della trilogia (Tony Manero, Post Mortem e No) focalizzata sulle tristi conseguenze della dittatura di Pinochet che qui cambia bersaglio, l’istituzione ecclesiastica, offrendoci un’altro illuminante affresco su una fetta di umanità tormentata, dove, contrariamente a quanto ricordato sui titoli di testa (Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre) sembra non esistere una separazione tra luce e tenebra, tra peccato e redenzione. Il film è uscito quasi contemporaneamente a “Il caso Spotlight” che affronta lo stesso argomento, restandone però sempre all’esterno, tra cronaca e inchiesta giornalistica, mentre questo film di Larrain vuole portarci dentro, fino a farci impietosamente toccare l’anima stessa del male e delle sue inspiegabili giustificazioni.
Peccato che l’argomento della pedofilia nella Chiesa venga qui mostrato in stretta connessione con l’omosessualità, rendendole quasi indistinguibili. Il film ci racconta quello che sta accadendo in una casa ai bordi di un piccolo paese su un’isola che ospita quattro preti ed un ex suora, colpevoli tutti di varie infrazioni, soprattutto pedofilia per i preti e commercio d’infanti per la suora (interpretata da una convincente Antonia Zegers, moglie del regista) che funziona come carceriera. Uno dei preti, interpretato dal bravissimo Alfredo Castro, sembra però, più che un pedofilo, un omosessuale convinto, che spiegherà al malcapitato Sandokan, come l’amore omosessuale abbia più valore di quello eterosessuale, in quanto quest’ultimo avrebbe soprattutto il compito di continuare la specie, mentre il primo sarebbe un atto d’amore puro e gratuito. Per tutto il film vengono poi accuratamente descritti rapporti sessuali, orali e anali, che mettono quasi in secondo piano gli esecutori e le innocenti vittime infantili, come se il colpevole fosse l’atto in sé e non chi e come lo pratica. Detto questo, che non toglie certo valore ad un film splendidamente scritto ed interpretato (e anche fotografato), ci troviamo davanti ad una sottile e profonda indagine sulla particolare condizione in cui vivono, al momento, questi personaggi. Dovrebbero condurre una vita di penitenza ed espiazione per le loro colpe (sono vietati contatti con estranei, masturbazioni, gite all’esterno nelle ore diurne, qualsiasi attività di carattere economico, ecc.) ma in realtà ci appaiono come un club, dediti soprattutto all’allenamento di un cane da corsa che sta dando loro grandi soddisfazioni (e anche denaro, soprattutto in prospettiva). Dovrebbero passare gran parte del tempo in preghiera, ma non li vediamo mai in questa attività. Dovrebbero dimostrarsi perlomeno pentiti dei motivi che li hanno forzatamente condotti in quel luogo, ma nessuno di loro parla o pensa mai al male che hanno fatto. In realtà, vuole dirci il film, sono persone recidive, disposte, per la loro sopravvivenza, a fare ancora del male. In effetti se andiamo a leggere quanto scritto dalla Santa Sede nel 2010 nelle Norme de Gravioribus Delictis, all’articolo 6 troviamo che la pedofilia è definita come “Delitto contro il costume”, cioè un ‘problemino’ da risolvere in qualche modo, soprattutto senza denunciare nulla alle autorità civili, perché bisogna anzitutto salvare le apparenze (marketing).
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