Un film estremo, un’avventura con lo spettatore sull’orlo dell’abisso. Alla fine, una flotta di barchette di carta è pronta a solcare i mari dell’immaginario. Viene voglia di partire. Grido ricorda più che gli omonimi film di Antonioni e di Skolimowski, il filmaker sperimentale canadese Michael Snow di «La Region Centrale». Lì dita elettriche percorrevano un territorio misterioso, pietra dopo pietra, e tutte le parti invisibili della tundra artica si mettevano così a vivere. Qui il regista, che sa come far recitare e commuovere le pietre (lo ha appreso in Israele, anche dalle tombe dei palestinesi, in Guerra), si mette davanti a noi con il suo dolore e tutto il resto. Narcisismo? Il contrario. Amore per il pubblico. Davanti agli occhi semichiusi dell’attore e drammaturgo che ricorda alcuni fatti importanti del passato (detour radicali; la scoperta del partner Bobò dove meno te lo aspetti, che non parla ma maneggia le mani come a Bali; la morte di un amante) è il nostro volto che acquista certezza, solidità. Grazie allo sguardo sbarrato che vede le nostre palpebre chiuse. Ecco il doppio gioco del cinema, Eyes wide shut. Inquadrare «l’amore». Per questo alcuni spettatori, nel documentario ripresi durante uno spettacolo, sono così turbati. L’amore, come lo specchio che è il cinema e come la morte, al lavoro 24 fotogrammi al secondo, ci dice che nell’amore il corpo è qui. (Roberto Silvestri – Il Manifesto)
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