Fort Buchanan

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Fort Buchanan

Mai si era visto al cinema un luogo tanto singolare attraverso una prospettiva altrettanto speciale. Il film ricorda Da qui all’eternità o anche Riflessi in un occhio d’oro, dove le donne degli ufficiali cercano conforto – in maniera più o meno elegante – tra le truppe dei soldati. Crotty non prende troppo sul serio i conflitti tra i suoi personaggi e preferisce che il volto degli spettatori venga illuminato da un sorriso mentre si lasciano contagiare dal dolce far niente che regna nelle scene del film, la cui fotografia è stata sapientemente curata da Michaël Capron.
“Nel film vediamo come Roger (il rubacuori Andy Gillet) venga tiranneggiato dalla figlia adottiva (un’adolescente ribelle con una vita travagliata) mentre suo marito, Frank (David Baiot), combatte al fronte. Ci troviamo in un momento in cui le coppie gay ed eterosessuali convivono in armonia all’interno di un’istituzione tradizionalmente stantia e chiusa: l’esercito. È per questo che Roger, portando asciugamani in testa come fossero i turbanti di Lana Turner, è come una qualsiasi altra moglie pettegola di questo club sociale. La forzata astinenza sessuale spinge più di una donna a cercare conforto tra le braccia degli altri membri, come nel caso di tre giovani e avvenenti casalinghe che tentano di sedurre il personal trainer del gruppo o la figlia di Roger. Ci penserà una signora anziana a fare da matriarca, inframmezzando con i suoi saggi consigli le interminabili chiacchierate dovute alla mancanza di affetto e alla nostalgia per i mariti. Divisa in quattro stagioni, questa tragicommedia riprende lo stile visivo della nouvelle vague e i dialoghi tipici delle serie americane. È per questo motivo che alcune scene rimangono congelate, come un film francese degli anni ’70. Il film è stato girato in 16 mm e le riprese hanno avuto luogo, per 15 giorni nel corso di due anni consecutivi, tra il deserto della Tunisia e le foreste dell’Alsazia-Lorena. Gli scenari sono stati disegnati dal francese Matali Crasset e l’atmosfera giocosa crea un mondo pop con qualche reminiscenza rohmeriana che rende il film edonista, caratterizzato da una plasticità sexy, ardita e decisamente innovatrice.” (Alfonso Rivera, Cineuropa.org)

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Four seasons to tell the fluctuating moods and mores of a small community that shares its daily chores and life experiences in the military base of Fort Buchanan.
In this imagined (perhaps dreamed?) location, peculiar habits respond to the needs of a peculiar environment. Roger, a fragile gay man, and his female companions, trying to cope with the absence of their husbands, go through their own brand of challenges for survival, with their own form of outdoor camaraderie, thought-occupying chat and DIY activities. Roger has a tough daughter who runs him ragged, but he has buddies willing to help: Justine, Denise, Pamela and Claudia-Joy.
The crossing of cultural codes foreign to one another sometimes produces awkward collages, but when handled by an astute modeler with a creative, sharp eye, such experimentations can take us a few steps into new territories.
Benjamin Crotty is one of these explorers. An American whose country of choice is France, where he’s lived for a decade, the filmmaker has composed, with a welcome sense of humor, a surprising, hybrid transposition of narrative codes from American fiction into a decidedly French esthetical realm. A strange territory indeed. (Aurélie Godet, Locarno)

CRITICA:

“Bienvenue à Fort Buchanan” si legge su una piccola costruzione fortificata mentre la mdp traballa sotto i colpi rigidi di un tamburo. La scritta segna l’ingresso in quella che pare essere un’area militare. Un attimo dopo, su fermo immagine, compare in sovraimpressione il titolo del film.
Fort Buchanan è immediatamente riconoscibile come film-luogo. Uno spazio che reinventa le sue coordinate geografiche tele-trasportando in Francia un’omonima base U.S. esistente nell’isola di Porto Rico. Uno spazio confinato tra titoli di testa e titoli di coda, la cui materia però sconfina continuamente in altri territori: il grigiore da film bellico delle prime immagini ben presto si tingerà di rosa, l’opera si farà soap opera e viceversa. Ed è proprio questo intimo rovesciarsi che, mi sembra, stia al centro di un film così decentrato nella forma, nello stile, nella sostanza, com’è Fort Buchanan di Benjamin Crotty.
La trama ruota attorno a un giovane gruppo di donne e di uomini che vivono in attesa del ritorno dei loro mariti impegnati al fronte. A Fort Buchanan si alternano così le stagioni e gli umori, tra ozio, noia e nostalgia, ginnastica e lavoro quotidiano, piccoli drammi familiari e nuove questioni di cuore. Non è tanto il contenuto, quanto soprattutto il linguaggio adottato dai personaggi che ricorda quello delle serie TV americane. Il regista (statunitense che però vive a Parigi), sottrae, mischia, riassembla linee di dialogo appartenenti al mondo della televisione made in USA, salvo poi far recitare tutto ad attori di origine e cultura francese. Il senso delle battute forse non è stravolto, ma è totalmente decontestualizzato al punto da suonare irrimediabilmente falso. Questo effetto straniante richiama l’attenzione su uno dei nodi alla base del film: la guerra che coabita con la vita di tutti i giorni, l’orrore che si normalizza e si banalizza nel quotidiano, fino a diventare terreno fertile per lo spettacolo. Un po’ come accade, ad esempio, nella serie Army Wives – Conflitti del cuore (Katherine Fugate, 2007-2013), dove lo scontro armato in Medio Oriente è solo uno nuovo sfondo, un altro set per drammi amorosi1. In questa maniera, mi sembra che Benjamin Crotty colga e sviluppi una contraddizione che si annida nella contemporaneità occidentale e che si proietta nelle case e nei salotti di ogni dove: è lo zapping che alterna tranquillamente una sit-com romantica a immagini di cruda violenza, Gossip Girl all’uccisione “in diretta” di Mu’ammar Gheddafi. Sulla superficie levigata dello schermo televisivo tutto si appiana e diventa oggetto di consumo.
«Cosa importano i vostri pensieri, l’importante è che formiate un gruppo pittorico» dice un personaggio in un film di Rohmer. Il concetto ben si adatta alla pellicola di Crotty, il quale gira in 16 mm e recupera un’estetica che a tratti ricorda proprio quella della Nouvelle Vague. Dalla grana del film però affiorano anche immagini digitali o computerizzate che ne confermano la natura ambigua, cangiante, aliena. Anche l’ambientazione contribuisce in questo senso, non avendo praticamente nulla da spartire con una base militare, ma essendo costituita da un paesaggio campestre al cui interno compaiono strane strutture in legno, abitazioni dal design particolare, extraterrestre. La colonna sonora, poi, spazia dalla musica country a quella classica, passando per l’elettronica. L’impiego di quest’ultima, in particolare, unito all’utilizzo di luci densamente colorate, permette di associare Fort Buchanan a opere come L’âge atomique (Héléna Klotz, 2012) o Les rencontres d’après minuit (Yann Gonzalez, 2013). Penso soprattutto alla sequenza della festa, quando il film si è momentaneamente trasferito in Medio Oriente (un luogo che non mi pare sia esterno a Fort Buchanan, ma semmai generato in questo dagli stessi personaggi, dal loro desiderio, come se si trattasse di un sogno o di un territorio dell’anima): anche qui musica e illuminazione sono gli ingredienti essenziali per creare uno scenario magico, lunare, irreale, pregno di romanticismo, erotico e melanconico allo stesso tempo. Un’altra pagina di quel «cinema fanciullescamente, schizofrenicamente sognante, immaginifico e musicale» (Abiusi 2015) che una nuova generazione di registi “figli della Nouvelle Vague” sta portando avanti da un po’ di tempo a questa parte.
E dopo l’inverno, la primavera, l’estate arriva anche l’autunno. All’unità spaziale se ne aggiunge una temporale, seppure frammentata2. In questo segmento il film acquisisce toni e sfumature differenti: è la stagione del rimorso e del lutto per qualcosa che non c’è più. In TV un giornalista annuncia una riforma dell’esercito che prevede la chiusura di molte sue basi e così anche Fort Buchanan dovrà presto scomparire per far posto a un complesso residenziale. Il requiem nel finale è affidato a dei versi di Walt Whitman: qualcosa a proposito di macchine e uomini, e di ciò che si lascia alle spalle. Intanto però un figlio sta per nascere e un timido sorriso segna l’inizio di una nuova storia d’amore. Ora tutto può ricominciare, sempre uguale, sempre diverso. (Nicola Curzio, Uzak.it)

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Fort Buchanan, the French feature debut of American expat Benjamin Crotty, at first seems classifiable as a certain type of small, conversationally inclined film. Initially structured around the domestic inner workings of an army base, focusing on the lives of several severed family units, it appears to be heading into minimalist exposé mode, examining the entwined sexual peccadilloes of all these forsaken spouses. But like many savvy modern micro-budgets, Crotty’s slim film instead exploits the familiarity of its setup to emphasize its disinterest in sticking to formulas, considering recognizable plotlines before tossing them aside, moving through a dreamlike mist at the nexus between military and civilian life. Awash in textural richness, the film is less about the reality of this situation than its ambiance, an atmosphere of desire—whether quashed, fulfilled, or neglected—bubbling up in strange and unexpected ways, all conveyed in fuzzily tactile 16mm.
Befitting the lack of interest in everyday detail, the titular fort is established by a single sign and then left as a vaguely defined space, a sylvan retreat that seems to have already melted back into the forest, resembling a summer camp more than anything else. Here the spouses, most of them female, play out a queer-oriented roundelay of sexual gamesmanship, pressuring the naïve Roger (Andy Gillet), stubbornly faithful to his Djibouti-stationed husband, Frank (David Baiot), to join their club. A similar pressure is exerted upon the local fitness instructor/mysterious woodsman (Guillaume Palin), with the general uptick in sexual energy apparently timed to the sexual awakening of Roger and Frank’s adopted daughter, Roxy (Iliana Zabeth), who gets casually inducted into the coven of part-time lesbians.
This is the film’s spring passage, the blossoming idyll that will be followed by three similarly seasonal-themed episodes. The next is a balmy summer retreat to Djibouti, where in a move that confirms the total abandonment of realism in favor of hazy sensual weirdness, the rest of the characters tag along, lounging in a sort of sun-baked rear-guard seraglio. This section cements what Fort Buchanan is really up to: In lieu of any overt narrative progression, it insistently focuses on ritual and movement, the way ideas and feelings flit impassibly among inter-connected groups. In Djibouti, Roger cuts his hair, is rejected by Frank, and gives in to despair—and with that all, the apparent central tension of the film collapses with a whimper.
This through line is replaced in the next two short chapters by different narrative concerns, which match the previous in tone, if not subject, with the general downward progression following the descending tenor of the seasons. The sudden transfer to episodic capsule sketches and the late-film introduction of new characters may feel jarring, but it’s a logical outcome of where Fort Buchanan has been moving; it’s a gradual passage from straightforward documentation toward the realm of sensory abstraction. From beginning to end, Crotty backs up his ideas with a healthy foundation of humor and a sensual evocation of his natural setting, setting up rich tableaux which juggle pain, comedy, and beauty in equal proportions, as in the sight of a morose Roger slicing salami in full figure-skater regalia, or the simple aural textures of birdsong and swaying leaves. The result is half theater of the absurd, half aching sensual reminiscence—a film which never settles into any identifiable rhythm, content to drift free-associatively through a tangle of linked relationships, considering the intricacies of group mechanics via an expressive free-form structure. (Jesse Cataldo, Slantmagazine.com)

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The purpose of the New Directors/New Films festival is to profile exciting new works by emerging talent across the world, a perfect description for Benjamin Crotty’s Fort Buchanan. Crotty, an American artist based in Paris, crafts a film that’s the sign of something fresh and distinct. Taking place on a French army base, Fort Buchanan follows Roger (Andy Gillet) as he stays behind while his soldier husband Frank (David Baiot) goes to work in Djibouti. Roger has little to do at the fort, aside from interacting with his abusive teenage daughter Roxy and the army wives waiting for their husbands to return.
In just over an hour, Crotty creates his own bizarre little world with Fort Buchanan. The fort itself is an area of sexual frustration, with the women eager to sleep with anyone they can find on the fort (including each other). Crotty also imbues his film with an off-kilter tone and sense of humour defying almost all conventions. There’s a sense of complete sincerity for every character, but Crotty regularly veers off into the realm of slapstick and surrealism. It’s a strange clash that feels like a direct mash-up between French arthouse and American indie.
Crotty’s balancing act doesn’t always work out in his favour, like when he tries shifting the narrative to a new character in the final act. But when it does work the results are hilarious and truly singular, a mishmash of styles and genres that work effortlessly. Fort Buchanan is the kind of debut that should get people excited; it’s original, strange, flawed, and brimming with potential. Most films have a hard time being this entertaining in two hours; Crotty does that and more in less than 65 minutes. (C. J. Prince, waytooindie.com)

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