Varie
During the course of a series of voyages, the pocket cameras of Pippo Delbono capture unique moments, ordinary and extraordinary meetings. From a hotel room in Paris to another in Budapest, from Istanbul to Bucharest, the journeys weave a fabric of the contemporary world. Its testimonials – some famous, others anonymous – say or dance their vision of the universe. The encounters (with his mother, friends, strangers) are so many images of the world of yesterday, today and tomorrow. A world that one person recounts through music (as in the case of composer and violinist Alexander Balanescu), another through gesture (as with Marie-Agnès Gillot, étoile at the Paris Opéra), or through words (actress Irène Jacob) or even silence (as in the case of Bobò, Delbono’s iconic deafmute actor, artist Sophie Calle and actress Marisa Berenson). At times, the camera is hidden (like when the mobile phone captures the umpteenth HIV exam, a medical test the director has been keeping doing, despite knowing the answer – “positive” – since the last 22 years; what would he change in “the script of his life”, should he be able to rewrite that day, that moment?, nothing, “because I learned to look at the Death in his eyes”, because “while you keep dancing, the Grim Reaper, seated, will await” ). At times, it records the moments before a catastrophe, as in the case of the earthquake at L’Aquila. Or those after, as at Birkenau. Unrepeatable, true moments, that the eyes of Pippo Delbono see as he walks; eyes that stop, slow, seek, are unsure, discover. From one image to the next, from one text to another, one space to another, the camera speaks to us of love. Of poetry. And flesh. With all its load of passion, dark sides, suffering, tragedy and humour.
Commento del regista
Un viaggio tra un’esperienza di morte e un desiderio di vita. Un viaggio che ho fatto portando con me mezzi di ripresa leggeri che mi hanno permesso di guardare e di essere guardato. Di usare la camera come un movimento degli occhi. C’è la memoria ancora presente di una carne malata, ferita, ma c’è anche il mio desiderio di trasformare la ferita in nuova linfa. C’è il desiderio degli altri, il bisogno degli altri, il desiderio di raccontare attraverso un cinema che non vuole documentare la realtà, ma guardarla diventare sogno, poesia. Per cercare quelle linee segrete che uniscono le cose che non capiamo. Per scoprire sceneggiature nascoste, trame nascoste che stanno dietro all’apparente casualità delle cose.
CRITICA:
Se qualcuno nutriva ancora dei dubbi che si potesse fare cinema con una piccola videocamera o un telefonino, e’ servito: ‘Amore Carne’ di Pippo Delbono, attore, regista di teatro, danzatore, presentato in concorso nella sezione Orizzonti della 68/ma Mostra del cinema di Venezia, dimostra che non solo e’ possibile ma forse, per riflettere senza mediazioni sulla visione, sulla vita, sulla morte, e’ addirittura necessario. Viaggi, incontri, visite mediche (riprese di nascosto), percorsi: tutto, musica (dolcissima e straziante quella di Laurie Anderson mentre scorrono prima immagini di bambolotti poi di volti umani), danza, parole, silenzi e sentimenti compresi, diventa cinema nell’occhio di Delbono, vigile e fermo al tempo stesso, anche quando si fa certificare (per la seconda volta, perche’ lui gia’ lo sapeva da 22 anni) la sieropositivita’ (‘ho avuto qualche comportamento a rischio, non tanti, pero’ sa com’e’ di questi tempi’). Sono, come dice lo stesso Delbono, ‘attimi irripetibili’ e quindi veri: niente ciak, niente scene ripetute, niente scenografia. La musica di un violino, il bagno di un laboratorio, il colloquio con una amica, una flebo, la danza di una etoile dell’opera di Parigi: carne e amore, vita e cinema fino all’incontro con la madre e ai loro due monologhi giustapporti (la madre che in teoria dovrebbe non sapere che il figlio e’ sieropositivo: chi la terra’ lontana dalla verita’ di questo film?). ‘Sono curioso delle altre vite – dice Delbono nel film – forse per sentirmi meno solo’, e per questo ha gia’ nostalgia di quando non ascoltera’ piu’ i monologhi della madre, ‘pieni di noia e di amore’. In un film in cui sfilano amici e colleghi come Irene Jacob, Sophie Calle, Marisa Berenson e che si apre e si chiude con il ricordo della grande Pina Bausch, costante riferimento per il teatro-danza e la visione muta di Delbono. ‘Mi rimproverate che ci sono piu’ finali? – ha detto Delbono ai giornalisti durante l’incontro a Venezia – E io la prossima volta ne faccio 58. Distruggere la regola, altrimenti si diventa berlusconiani nello sguardo’. Peccato aver buttato in politica una verita’ cosi bella. ( Massimo Sebastiani, Ansa)
Come definire Amore Carne, girato per la seconda volta con un cellulare da Pippo Delbono? Certamente è un film diario, oltre che riflessione sulla vita, sulla realtà, sul cinema stesso. Al centro appunto l’amore, inteso anche come sua totale negazione, e la carne/corpo di un artista che si mette a nudo e nulla tace di sé. L’inizio, in questo senso, è rivelatore nella sua straziante dirompenza. Delbono confessa di essere sieropositivo da oltre vent’anni e di convivere con una malattia che continua a insinuarsi lenta senza dire quando esploderà. Una prossimità con la morte che segna in modo inequivocabile lo sguardo del regista sul mondo, inducendolo a riflettere su quella sorprendente parabola che è l’esistenza.
Gli oggetti di indagine sono il rapporto con la madre, l’amicizia, la solitudine, la creatività, l’altro da sé. Elementi che irrompono senza rispettare alcuna logica narrativa, in quanto elaborazione pura di pensieri ed emozioni. Delbono non allinea i concetti, ma li lascia affiorare così come abitualmente vengono alla mente. Non a caso alcune volte a parlare sono esclusivamente le immagini, proprio come succede quando un sentimento affiora ma è troppo presto per dargli forma e trovare le parole per spiegarlo. Altre invece accompagna le inquadrature con la sua voce off: un fiume che nonostante il flusso incontrollato resta sempre serrato nello scorrere. Altre ancora è la musica a fare da sottofondo, bandito ogni altro rumore esterno. Se insomma le idee sono lasciate libere di fluire, lo è altrettanto il linguaggio.
Delbono elude sintassi e grammatica, impegnato solo a costruire un’estetica personale in grado di catturare squarci di vita, frammenti di memoria, lampi di un possibile futuro. Amore Carne è anche a tutti gli effetti un film sperimentale, in cui il mezzo scelto – il cellulare – si libera della sua invadenza nelle vite quotidiane per farsi strumento, per quanto non nuovo, di racconto. (Angela Prudenzi, Cinemtografo.it)
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