“… film di Pilar Monsell, cineasta trentenne spagnola, che racconta la relazione tra lei e suo padre, un dialogo frammentato, fatto di silenzi, domande dirette, storie di sogni, dolori della vita che scivolano nei gesti quotidiani: il mare azzurro, i panni stesi, le nuvole che tagliano il cielo, il dettaglio di un volto, le arance spremute, i capelli scuri agitati dal vento. Le mani della regista sfogliano un libro, la biografia paterna, la prima parte si chiama «La mia vita in rosa», può sembrare eccentrico visto che narra il suo addestramento militare negli anni prima di diventare medico, e subito dopo, nel Sahara spagnolo. Ci sono fotografie in bianco e nero che somigliano alle stampe dei libri esotici, si vedono giovani uomini in divisa, e poi nudi che si fanno il bagno. Intorno la sabbia, le palme, il sentimento di solitudine che esplode lungo la linea ineffabile dell’orizzonte.
L’omosessualità era nell’aria, dice la voce del padre anziano oggi. I soldati lo seducevano per avere dei favori, magari essere messi in stanza da soli perché la diagnosi diceva che la loro malattia era seria. Poi c’erano i Sahrawi, loro, gli spagnoli, non potevano parlarci ma alcuni collaboravano con i militari, ed è stato così che ha incontrato Mohammed.
Non è facile parlare al proprio padre della sua omosessualità, che stride coi filmini familiari delle nozze, delle vacanze al mare insieme ai figli piccoli, delle estati in viaggio… «Perché ti sei sposato» chiede la cineasta. «Volevo dei figli e non potevo averli diversamente allora». A loro dedica il libro della sua vita, di uno che ha molto amato e vissuto, ma anche molto sofferto. Con gli anni sono arrivati gli Yamel, gli Ahmed, riccetti e giovanissimi, le facce impertinenti. Quell’uomo era il loro passaporto dal Magreb all’Europa, la via di fuga dalla miseria, verso la Spagna, la Francia, la Svizzera. Ogni incontro un nuovo dolore, ogni principe azzurro una marchetta. Negli anni Ottanta c’era quel ragazzino, bellissimo, giovanissimo, senza timore che pensassero stesse con un vecchio era andato a vivere insieme a lui in Spagna per studiare. Non era gay e sapeva che io lo ero, dice l’uomo, per lui aveva perduto il cuore.
Un padre e una figlia, e questo loro parlarsi pacatamente, senza accuse né recriminazioni sulla vita. E che in una parabola quasi letteraria — somigliano ai protagonisti dei film di Téchiné e ai ragazzi di vita pasoliniani i giovani delle sue fotografie — diviene una riflessione su quanto i ruoli di potere determinano i sentimenti, sull’impossibilità di essere liberi. E su una scelta che mantiene quella separatezza originaria: i colonizzatori, militari, gli spagnoli, gli occidentali da una parte, e i colonizzati dall’altra. Il Marocco, dice l’uomo alla fine non è distante ma da lì Gibilterra sembra un altro mondo.
Erano opportunisti, alcuni mi hanno deluso, mostravano una finta innocenza e invece avevano dei piani in mente molto chiari. Eppure lui guardava solo loro, i proletari con lo sguardo irriverente. Non era il primo a cercarli sapendo ogni volta cosa questo «rapporto di forza» aveva in sé? Mal d’Africa e male dell’Africa. Esotismo e dominio. E questa storia di un padre e una figlia all’improvviso racconta il nostro mondo, il crinale che mette davanti ricchi e poveri, occidente e Africa, con la sua ambiguità violenta e sempre attuale.” (Cristina Piccino, Il Manifesto)
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