Varie
“Vorrei consigliare al ministro Fornero e ai sindacati che oggi festeggiano il Lavoro di procurarsi un mediometraggio di due ragazzi del Sud, Gianluigi Belsito e Michele Caricola. Si chiama A CHI APPARTIENI ed è un’espressione assai in uso dalle mie parti, in versione dialettale, non tanto per sapere come Dante ‘chi fur li maggior tui’, ma chi sono i tuoi protettori, il tuo partito, il tuo pappone, la tua gang di riferimento. Perché, sostengono i due ragazzi, per cercare lavoro il criterio dell’appartenenza prevale su quello della competenza”. (M. Veneziani, Il Giornale)
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Gli autori del film, Gianluigi Belsito e Michele M. Caricola, intervistati da controcampus.it:
“A chi appartieni”, storia di un giovane laureato, con un curriculum brillante, stage in Spagna e ottime premesse per il futuro. Tuttavia di fronte alla dura realtà italiana del cercare lavoro, invischiato poi in un mestiere che mai avrebbe immaginato. Come e da chi è nata l’idea?
MMC. L’idea era in cantiere da tempo. Esisteva una vecchia sceneggiatura, dal titolo “Cam-Boy”, che per vari motivi non era mai stata sviluppata. Il motore della storia, come in “ A chi appartieni”, era l’esigenza di uno studente universitario fuori sede di riuscire a completare gli studi dopo che, per motivi burocratici, gli era stata negata la possibilità di ricevere la borsa di studio annuale, erogata dalla propria università. Lo studente decideva di esibirsi nudo in webcam per potersi pagare affitto e libri universitari. L’idea era forte ma difficilmente rappresentabile all’interno di un cortometraggio. Confrontandomi con l’amico Gianluigi Belsito, che nello stesso periodo stava conducendo un’inchiesta giornalistica sul mondo della prostituzione maschile legato al mondo universitario, abbiamo accettato la sfida di rappresentare in un modo diverso la complessa modalità di trovare ed ottenere lavoro in un paese come l’Italia. Ed è nato “ A chi appartieni”.
GB. Una sceneggiatura che non scende a compromessi per un film che non intende nascondere nulla. Non saremmo riusciti a parlare in termini diversi del mondo del lavoro di oggi e lo facciamo senza ipocrisie di alcun genere.
Se la storia è stata tratta da un evento reale, quali sono gli elementi recuperati dal reale, e cosa invece è frutto della sua invenzione?
GB. Gli eventi di “A chi appartieni” sono quasi tutti recuperati dal reale. La regola cardine di una buona sceneggiatura è che bisogna raccontare ciò che si conosce. Ognuno di noi, nella sua vita, ha dovuto sostenere un colloquio di lavoro che può aver avuto risvolti tragi-comici. E ognuno di noi ha compiuto delle scelte che hanno influenzato la propria vita. Tutto questo è descritto nel mediometraggio, e solo per motivi stilistici si è deciso di estremizzare alcuni personaggi, per sdrammatizzare le cose tristi narrate nel film. Personalmente, poi, ho voluto interpretare il Direttore del Personale di un Ente che riceve finanziamenti pubblici con il quale proprio io, Gianluigi Belsito, mi sono dovuto raffrontare nella vita reale: colloquio di lavoro andato benissimo, sembrava quasi di parlare da consulente e non da esaminando. Morale della favola, però: il posto è andato a un altro. Dietro le quinte mi è stato detto che, pur essendo la persona giusta al posto giusto, non ero spinto da nessuno e che quei colloqui erano solo di facciata perché c’era un avviso pubblico a cui dar conto. Ebbene, per me voleva essere una specie di catarsi recitare il personaggio in questione, ma paradossalmente nell’interpretare quella carogna non ho provato nessuna emozione pur sapendo che era una persona realmente esistita e che dall’altra parte c’ero stato io. Forse è vero che gente del genere si è abituata a non avere scrupoli.
Il titolo del mediometraggio la dice lunga, incarnando perfettamente la trama della pellicola. Il trailer ne sviscera subito il significato. “Altro che laurea, capacità, meritocrazia, conta solo a chi appartieni”. Un’appartenenza che si apre a più interpretazioni. In senso stretto l’appartenenza che conoscerà bene il protagonista, coinvolto nella prostituzione. In senso lato, soprattutto in tema di occupazione, l’appartenenza si concilia bene con la raccomandazione e le conoscenze, lasciapassare spesso e purtroppo necessario per lavorare oggi. Si tratta solo di una coincidenza, o di una doppia chiave di lettura presente nel medio metraggio?
MMC. Le chiavi di lettura di “ A chi appartieni” sono molteplici. In fase di sceneggiatura c’è stato un lavoro composito e a tratti involontario sul termine “appartenenza” che è sfociato non solo nel titolo dell’opera ma anche nella morale stessa del mediometraggio. In “A chi appartieni” si passa dalla più semplice appartenenza ad un gruppo sociale (conoscenza e parentela), indispensabile per poter accedere a determinati posti di lavoro, ad una più ampia appartenenza fisica e mentale rispetto ai luoghi e alle persone che ci circondano. Il messaggio insito nell’opera è che la nostra appartenenza ad un luogo e ad un gruppo di individui influenza noi stessi, le nostre scelte e il luogo stesso in cui viviamo. E in alcuni casi, le scelte o i comportamenti di altre persone sono in grado di influenzare direttamente la nostra vita e il benessere del territorio in cui viviamo. Inconsapevolmente ognuno di noi appartiene a qualcuno o a qualcosa. Ma forse si sta svelando troppo…
GB. Alla fine la prostituzione insita nel film è una metafora di tutta la attuale società italiana, ma questo è il punto di vista degli autori sia chiaro! Ciascuno di noi, oggi, è costretto però ad accettare compromessi piccoli o grandi. Pensiamoci…
Dovendo scegliere il momento più emblematico della pellicola, il fotogramma che più incarna il messaggio da comunicare, quale sceglierebbe e per quale motivo?
MMC. E’ una domanda difficile a cui rispondere, perché implicherebbe raccontare alcuni aspetti della trama e non voglio togliere il gusto a chi ancora deve vedere il mediometraggio di veder svelati alcuni particolari degli eventi. In “ A chi appartieni” abbondano i primi piani, definiti da qualcuno “ bellissimi”, che tuttavia stonano con il personaggio rappresentato. La bellezza esteriore di alcuni personaggi, valorizzata dai primi e primissimi piani, talvolta è dissonante, perché non corrisponde alla bruttezza interiore del personaggio rappresentato sullo schermo. Quindi, una bella confezione a cui corrisponde un contenuto diametralmente opposto. Di sequenze molto belle ce ne sono tante, ma due possono restare indelebili nel cuore dello spettatore. La prima è un bellissimo totale del porto di Bisceglie, in un momento in cui il protagonista del film fa ritorno a casa per andare a visitare sua madre. In quella sequenza traspare la malinconia del protagonista, attaccato al suo luogo natìo, che purtroppo è costretto ad abbandonare perché non vi sono opportunità di lavoro. La seconda è il finale del film, con un montaggio sincopato ed una musica incalzante, che è il vero e proprio manifesto del film, il momento in cui si tirano le fila del discorso intrapreso durante tutta l’opera e il protagonista giunge alle sue conclusioni. Difficile da spiegare attraverso le parole ma di forte impatto sullo schermo.
Il finale della storia non è dei più idilliaci. Non c’è il famoso “happy ending”. Quali riflessioni vi hanno condotto a questa scelta?
GB. Semplice. Viviamo in una nazione che sta toccando il fondo. E se siamo quasi alle macerie non si può costruire un nuovo edificio su fondamenta di argilla, occorre prima radere al suolo per poi ricostruire. Il nostro film fa parte della fase del nichilismo totale, anche se in cuor nostro c’è un forte ottimismo e una speranza vera, a iniziare dal nome del protagonista che è proprio Paolo Esperanza, pur essendo questo un messaggio subliminale visto che lui non viene mai chiamato per cognome. Lo sappiamo solo noi.
Il film è stato girato in Puglia, tra Bari e Bisceglie. Più per affetto per la Puglia, terra di entrambi, o perché un territorio difficile come il Meridione offre maggiore realismo alla dura storia del giovane Paolo? Tra l’altro il protagonista viene interpretato da Luigi Di Schiena, esordiente attore andriese. E’ evidente, sia in lui che in altri personaggi, il marcato accento meridionale. Più un pregio o un difetto, considerate le circostanze e la trama della storia?
MMC. Il film è stato girato in Puglia per questioni di budget. Poteva benissimo essere ambientato a Napoli, Bologna o Milano. Il senso del film non avrebbe perso il suo valore. Nel mediometraggio non ci sono indicazioni spaziali precise che riescano a collocare gli eventi in una determinata città. Viene solo menzionata la Puglia in una scena, per semplici questioni narrative, ma, a meno di conoscere personalmente i luoghi in cui alcune sequenze sono state girate, abbiamo cercato di caratterizzare il meno possibile le ambientazioni per dare un respiro più ampio e meno localizzabile alle vicende narrate. Questa è stata una scelta volontaria, perché il messaggio che volevamo veicolare non è locale ma nazionale. Con un po’ di campanilismo posso affermare che: non è solo al Sud che i datori di lavoro si lasciano influenzare da criteri soggettivi di scelta dei loro dipendenti ma è una “pratica” diffusa in tutta Italia. E il fenomeno della prostituzione maschile è molto più diffuso al Nord che al Sud. D’altro canto, la scelta di utilizzare attori con marcato (ma non più di tanto) accento meridionale, è stata dettata da esigenze narrative. Ci sono alcuni prodotti filmici in cui la recitazione in dizione è molto calzante e non stona con la storia che viene narrata. In “A chi appartieni” abbiamo sentito l’esigenza di utilizzare attori con accento meridionale per donare freschezza e realismo al nostro film. Determinati concetti “suonano” meglio se pronunciati con l’accento e la lingua del cuore, senza impostazioni di dizione di sorta. Il nostro è un film che parla di una storia reale, che accade a dei ragazzi reali, circondati da persone reali. Nessuno di noi, nel linguaggio colloquiale, parla scimmiottando l’accento romano o milanese. Per questo motivo si è scelto di puntare sulla caratterizzazione linguistica di alcuni personaggi all’interno del mediometraggio. Per i puristi della dizione ad ogni costo, posso affermare che sono presenti anche personaggi che si esprimono in “Italico Puro”. Purtroppo per i puristi, per rendere più “ reale” la personale “discesa all’inferno” del nostro Paolo, si è scelto di utilizzare alcuni attori che si esprimono con un linguaggio colloquiale.
GB. Consentitemi: ma chi se ne frega della dizione! I nostri personaggi parlano in modo vero. Oltre a Di Schiena, comunque, mi sembra opportuno parlare anche di Claudia Lerro, che interpreta la cinica quanto triste Patty, Francesco Paolo Palmese che è il “lucignolo” Simone, Francesco Carrassi che regge tutto il montaggio con il flash-back, e tanti altri attori che si sono prestati con entusiasmo a realizzare un film che ha coinvolto tutti sin dalle prime fasi della lavorazione.
Il vostro “A chi appartieni” sta riscuotendo un vastissimo successo. Come spiegate un così grande consenso, ve lo aspettavate?
M.M.C. Io sono ancora incredulo. Mi aspettavo di essere attaccato aspramente e duramente da una larga fetta di pubblico, invece i dissensi per come abbiamo trattato l’Italia sono stati pochi e molto circoscritti. Sicuramente è un film che solleva molti dubbi e mette in discussione molte verità. Verità che sono sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno ha il coraggio di denunciare. Evidentemente siamo riusciti ad esprimere con il nostro film un disagio latente nel cuore di tutti gli italiani. Penso che ognuno di noi, durante la visione di “ A chi appartieni”, riesca ad entrare in empatia con almeno uno dei personaggi. E questa empatia, come un velo sul cuore, ci porta a riflettere sulla nostra situazione attuale di studenti, di figli, di padri e di lavoratori.
GB. E io aggiungo che il vasto successo deve ancora arrivare. In fondo, ad oggi, il nostro lo hanno visto in pochi, anche se ne parlano in tanti come se lo avessero già visto. Penso che quando inizierà a circolare all’estero accumuleremo una notevole rassegna stampa tutta in inglese.
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